Cronaca di un fuorivia
Noah Jaybird è un perdigiorno: cacciato dal college e ritrovatosi senza lavoro, vive ancora con la madre. Quando si ritrova, controvoglia, a dover fare da babysitter per una sera, il giovane affronta una famiglia dai figli a dir poco strambi: Slater, tredicenne ansiogeno imbottito di psicofarmaci; Blithe, una bambina che si trucca pesantemente e si atteggia da ballerina sexy; Rodrigo, un salvadoregno recentemente adottato, riottoso, asociale, con una innata passione per le bombe e per il vandalismo.
Se già la serata si preannuncia difficile, ci si mette anche la fidanzata di Noah, che lo chiama supplicandogli (e promettendogli un’attraente ricompensa) di procurarle una dose di cocaina e di portargliela ad un party al quale sta partecipando. Il protagonista si ritrova dunque a doversi portare dietro i bambini e a far fronte ad una vera e propria discesa negli inferi, nei meandri notturni della città. Sfruttando il talento di un attore oramai consacrato come Jonah Hill, The Sitter (ci rifiutiamo di nominare il fuorviante titolo italiano) è un evidente omaggio al Fuori Orario di Scorsese, riadattato in chiave comico-escatologica con tutti i topoi e gli elementi stilistici della nuova commedia americana (quella che vede in Judd Apatow il modello di riferimento prediletto). Se Fuori Orario era, in tutto per tutto, il racconto di un incubo in cui il protagonista si ritrovava a dover affrontare, nello sfondo arty di Soho, tutta una serie di situazioni e personaggi a dir poco bizzarri, in The Sitter non vi è alcun metaforico risveglio (seppur coperto di polvere e detriti) e nessun ritorno alla routine ma un vero e proprio cammino verso la redenzione. Il Paul Hackett scorsesiano, infatti, non era altro che uno yuppie in una nottata in costante confronto con dei freaks; alla fine però, Paul rimaneva yuppie e i freaks di Soho continuavano ad essere freaks senza alcuna possibilità di incontro tra le due categorie. Nel film di David Gordon Green invece, Noah si confronta con degli emarginati e scopre di essere come loro, parla il loro linguaggio e, a parte iniziali tentennamenti, in fondo li capisce. Certo, ci sono i cattivi della situazione (una banda di spacciatori capitanata da un ottimo Sam Rockwell), ovvero freaks talmente strambi da risultare praticamente irrecuperabili, ma nel film in questione, l’incubo si trasforma in un racconto morale in cui i protagonisti acquistano fiducia in se stessi operando il classico accordo tra le parti immancabile in ogni prodotto del genere commedia. Un film tutto sommato canonico, che non aggiunge nulla a quanto di interessante è stato prodotto in operazioni affini a questa per genere, stile e tematiche, e che non nasconde i primi sintomi di una stanchezza di fondo tipica dei lavori troppo standardizzati.