Datemi un controller
Freerunner poteva essere un grande videogioco.
Il “free running” è l’arte del muoversi attraverso spazi metropolitani adattando il corpo all’ambiente circostante, per spostarsi nel modo più efficiente, veloce e coreografato possibile: salti mortali e capriole sui tetti, scivolate su tavoli, ringhiere e cofani di automobili, rimbalzi tra muri e scale antincendio, arrampicate a mani nude lungo grondaie arrugginite…
Lo sport perfetto per un videogioco, tutto azione, tutto spettacolo, tutto frenesia, in un scenario free roaming, tra l’altro, che non necessita di trama ma che ce l’ha lo stesso perché fa figo. Magari una storia semplice semplice, per lasciar spazio a combo e mosse speciali, una come questa, ad esempio: un gruppo di giovani free runner viene rapito da dei sadici miliardari che li costringono a partecipare a una gara mortale. Hanno un’ora di tempo per attraversare la città, altrimenti il collare legatogli al collo esploderà. E via, a pigiar tasti fino a slogarsi i pollici.
Purtroppo, Freerunner non è un videogioco. E’ un film. E la trama di qui sopra non è inventata, è la sua trama, che per quanto interessante – seppur vista condita in milioni di salse – è ottima al massimo per un mediometraggio (o un videogioco). Invece i sei sceneggiatori (sei!) si sono inventati tutta una prima parte sui problemi economici del giovane protagonista (Sean Faris e la sua faccia pixellosa, altra roba da videogioco) e di come sia tanto un bravo ragazzo in difficoltà eccetera, interminabile e ricca di stereotipi, per passare poi a una seconda dalle trovate risapute e spesso forzate. Rimangono le abbondanti acrobazie, e qui il regista Lawrence Silverstein, all’esordio, ci mette del suo, abusando di rallenti e riproponendo in continuazione mosse e situazioni simili tra loro. Ripetitività e cadute di ritmo diventano il collante del film e questo perché manca l’elemento essenziale per renderlo realmente intrigante: l’interattività che solo il videogioco può dare. Freerunner non è altro che un oggetto d’intrattenimento che ha sbagliato piattaforma di fruizione.
Ed è un peccato.