Sabato 14 luglio, Sky Cinema Classics, ore 02.00
L’anima poetica del cinema
Charlie Chaplin, ovvero il cinema. Perché è innegabile che se il cinema avesse un corpo, questo sarebbe la silhouette vagabonda di Charlot. Ogni sua parte è oggetto di culto, dalla bombetta al bastone di bambù, dalle brache troppo grandi ai baffetti esplorati da Bazin. Il “tramp” poetico ed emarginato incarna l’essenza stessa della settima arte, che per anni ne ha condiviso grandiosità espressiva e discriminazione.
Nessuno stupore, allora, se la sua opera è ormai leggenda, soprattutto quando si parla di La febbre dell’oro. Leggendario è il momento del suo concepimento, a casa di Douglas Fairbanks e Mary Pickford davanti a una diapositiva sui cercatori d’oro del Klondike. Leggendaria la vicenda che ha completato il soggetto, quella di un manipolo di emigranti che rimase bloccato sulla Sierra Nevada cibandosi di cuoio e della carne dei compagni. Leggendaria, infine, la relazione con Lillita MacMurray, musa ispiratrice della Lolita di Nabokov – a proposito di leggende – e già angioletto malizioso in Il Monello (1921). Scritturata come Lita Grey ancora sedicenne, dovette abbandonare il set del nuovo film perché incinta dello stesso Chaplin.
La febbre dell’oro fu dunque un film sofferto, sia per le liaison con la vita privata, sia per le ripercussioni che queste ebbero sui tempi di lavorazione e sulla necessità di trovare una nuova attrice. Ma il risultato è un’opera straordinariamente riuscita, non soltanto sul piano drammatico, in quella perfetta miscela di tragico e ridicolo in cui Chaplin è maestro, ma innanzitutto a livello tecnico. La ricostruzione della Sierra Nevada, con l’imponenza dei crinali e la furia impetuosa della tormenta di neve, raggiungono vette di superbo realismo. L’uso di modellini e di un ingente apparato di miniature permisero la riproduzione degli ambienti innevati, mentre occorsero circa seicento comparse per realizzare le scene di massa.
Protagonista indiscusso della vicenda è, naturalmente, il piccolo vagabondo, impelagato in un susseguirsi di situazioni rocambolesche e nella languida melanconia di una storia d’amore. Se all’inizio si ingegna a sopravvivere alla fame, gabbando compagni più grossi di lui, ben presto deve affrontare i morsi anche più atroci della solitudine e dell’emarginazione sociale.
Chaplin ne illustra le contraddizioni con meravigliosa versatilità, ora inanellando gag esilaranti, ora adombrandosi di un dolore raccolto. Nella versione del 1942 lo accompagnano le musiche che lui stesso compose, in collaborazione con il pianista Max Terr, per adeguare la pellicola originale all’avvento del sonoro. Molte le scene passate alla storia, dalla “caccia al pollo” di Big Jim al rifugio in bilico sul precipizio, fino alla preziosa “danza dei panini” ispirata a un film di Roscoe “Fatty” Arbuckle.
Il mito della frontiera, con la sua folle corsa verso la terra promessa di un nuovo status economico, si rivela in tutta la sua utopia, spazzato via da una miseria brutale e una natura implacabile. Il vagabondo ne sopporta lo smacco con la consueta compitezza, impiattando uno scarpone con impassibile aplomb per gustarlo come la più prelibata delle leccornie. Ma è l’amore a ferirlo davvero e a rendere insopportabile il proprio isolamento, la ricchezza non è che un mito lontano, relegata sul fondo dalle necessità impellenti. Quando alla fine arriva, l’amore non la riconosce perché è anonima e priva di poesia. E per Chaplin, si sa, non v’è colpa peggiore.