Arirang e la morte nel cinema
Ad un certo punto di Arirang, il regista Kim Ki-Duk conclude le meditazioni confidate alla macchina da presa con un sacrificio veramente provocatorio, volontariamente simbolico: “ciak, azione, si gira”, ma le parole non servono più a indicare l’inaugurazione canonica di una ripresa, le parole d’ordine per iniziare una narrazione; “ciak, azione, si gira” diventa il testamento di un regista perché al posto dell’obiettivo c’è una pistola.
Si gira, il film ricomincia, c’è uno sparo e due conseguenze: la ripresa finale è la fine di una vita, di ciò che è humanitas, la fine del tempo umano; ma là dove finisce l’uomo, inizia il tempo non mortale della macchina che l’uomo non può stoppare: il tempo della morte in diretta. È una scena, e una scelta, tanto presuntuosa e critica (il regista non si è certo ucciso, semmai ha ucciso simbolicamente la crisi in cui è caduto per tre anni e il cui superamento è l’oggetto del film) quanto capace di offrire una risposta immediata e violenta ma ramificata al problema della morte del cinema. Kim Ki-Duk però non si chiede se il cinema è morto o stia morendo: per lui è prioritario accorgersi che il cinema è morte, e quindi, ma non secondariamente, distruzione. Bisogna ricominciare la riflessione e ribaltare la preposizione: non la morte del cinema ma la morte nel cinema. La morte è in agguato anche quando si simula e può colpire un attore: allora i mezzi paralizzano il fine. Se questa possibilità è sempre vera, viva, un regista può scegliere di non fare più film, di non essere più regista, e così far morire il cinema per sciopero; o può scegliere di fare film, ma ogni volta la paura della morte si ripeterà, anche se filma solo sé stesso. Così facendo diventa attore, si drammatizza, ricade nella simulazione che non voleva e ricapitola ancora nel pericolo di morire. Anche in questo caso il cinema muore comunque, perché uccidendo il suo prossimo non ha più altro con cui alimentarsi.
La questione della morte nel cinema però è vissuta da Arirang non solo come un lamento ma anche come esigenza estetica. È l’esigenza è rifiutare quel cinema di morte, che è anche il cinema protagonista della morte del cinema, per creare un nuovo cinema, alternativo. Kim Ki-Duk per farlo cerca binari antinarrativi inediti, ma ricade nella contraddizione peggiore: non una nuova ma la più vecchia e la più naturale delle narrazioni, quella di sé, il vecchio cinema che si ripete fondendo regista e attore. E allora perfino cercare la morte ma non morire è l’ennesimo gesto che non sconvolge: cerca l’onestà del dolore e invece il cinema lo placa come istrione; e un gesto tragico diventa il più ridicolo dei gesti. Ho scelto questa scena emblematica perché, nel bene e nel male, contiene le problematiche dell’intero film. Eppure non era forse questa la strada più immediata e spiritualmente laboriosa per un regista dai film istintivi, grezzi, sensibili e senza mezze misure? Kim Ki-Duk usa la struttura dei dialoghi platonici per interrogarsi e rispondersi, si spreme davanti alla macchina da presa, però non si sa dove finisce il Kim Ki-Duk uomo e dove inizia il Kim Ki-Duk che recita. È difficile trovare oggi un film similmente narcisista ed eroico. Ma la vera difficoltà è stabilire se è coerente o incoerente fino all’estremo. Un film siffatto sarà costantemente un fallimento, perché, confidando nel libero arbitrio dello sfogo, si libera delle convenzioni e del convenzionale al prezzo di rivelare infine, solo, niente più, che il suo stesso sfogo; e credo che Arirang sia solo questo. Per altri, invece, la consapevolezza di conquistare questo limite, questa conquista così piccola, la conquista di fallire e tuttavia non potere fare a meno di continuare a filmare, potrebbe essere uno dei più sinceri passaggi di testimone ancora possibili. A voi la scelta.