Molte immagini, poca verità
Siberia 1939. L’ennesimo arresto ad opera del regime sovietico dalla dubbia giustizia porta nuovi uomini all’interno di un gulag russo. Immerso nel paesaggio siberiano, sopraffatto da esso, un gruppo di reclusi riesce a fuggire dalla dura prigionia; spinti da svariate motivazioni, quasi tutti riusciranno a raggiungere la libertà due anni più tardi.
Peter Weir (già regista di Master and Commander, The Truman Show e L’attimo fuggente) spende buona parte del film per fare del paesaggio uno dei personaggi centrali: esaustivi dialoghi sull’ambiente impervio e ostile insieme a piani totali incentrati sulla natura e sul nulla che circonda i prigionieri, ci convincono della loro veridicità al punto da immaginare dure condizioni persino per le riprese stesse del film. La sorpresa arriva però scorrendo i dati della produzione, che svelano il trucco: il paesaggio siberiano, tanto centrale in quest’opera, è in realtà una commistione di ambientazioni di Marocco, Bulgaria e India, paesi in cui si sono svolte le riprese. Ma le finzioni del caso non sono finite. Per interpretare due polacchi, due russi, uno jugoslavo ed un lituano sono stati scritturati due inglesi, due irlandesi, un rumeno e uno svedese. La domanda nasce spontanea: perché preoccuparsi di controllare i retroscena della realizzazione di un film che si annuncia di enorme carica emotiva? Prima di tutto per gli espedienti e i giochi d’ombre cui il regista ci ha abituato, soprattutto in The Truman Show; inolre, motivazione soggettiva, ma forse più rilevante, è che evidentemente il film non coinvolge a tal punto da farsi abbindolare dalle inquadrature, non cattura abbastanza da far tralasciare gli strani accenti fatti adottare a Colin Farrell e compagni. Proprio il ruolo di quest’ultimo sembra un classico del repertorio americano (un bel galeotto poliglotta e di lunga esperienza), riducendo così il film all’ennesimo ritratto dell’Europa vista dall’America, con distrazioni e leggerezze annesse. Il viaggio catartico che guida i personaggi tra problemi esistenziali e percorsi ostili scorre, ma non trascina gli spettatori nel mondo diegetico; essi restano osservatori esterni a una vicenda che, seppur di grande potenziale emotivo, viene sfruttata solo in parte, con un’ottima realizzazione, ma seguendo i topoi letterari che dai tempi di Plauto ci fanno riconoscere i personaggi anche ad occhi chiusi.