I dolori del giovane Peter
La storia, a grandi linee, è la stessa: c’è un adolescente orfano, impacciato e un po’ nerd che un giorno viene punto da un ragno geneticamente modificato, guadagna strepitosi superpoteri e si trasforma nel supereroe mascherato più amato degli ultimi 50 anni.
La storia la conosciamo bene, anche perché 10 anni fa Sam Raimi ne fece un film (il primo di una trilogia che ha il suo vertice nel secondo episodio e il collasso rovinoso nel terzo), destinato a (ri)definire il concetto di cinecomics. Il confronto tra il primo Spider-Man e The Amazing Spider-Man di Marc Webb, a così breve distanza e date le evidenti similitudini, è inevitabile. Ma ridurre una recensione a una gara a punti sarebbe un esercizio sterile, quindi fingiamo di essere quei preadolescenti che non hanno mai visto il film di Raimi e che dell’Uomo Ragno conoscono giusto i meme vintage che circolano in Rete: The Amazing Spider-Man è prima di tutto un ottimo film supereroistico. Ha una trama avvincente e non teme momenti di stanca durante le sue due ore e un quarto di durata (no, nemmeno per chi sa a memoria tutta la storia della Osborn, degli esperimenti genetici, dello zio Ben), effetti speciali di prim’ordine supportati da intelligenti invenzioni visive (le soggettive di Spider-Man tra i grattacieli newyorchesi sono emozionanti e trascinanti), un cast affiatato e azzeccatissimo. Il reboot di Spider-Man firmato Marc Webb brilla indubbiamente della luce dei suoi interpreti. I fan della serialità televisiva non possono fare a meno di rivedere il Presidente Jed Bartlet di West Wing quando lo zio Ben/Martin Sheen ammonisce Peter sulla responsabilità di fare sempre la cosa giusta; o di assaporare negli abbracci di zia May/Sally Fields tutto il calore materno di Nora Walker di Brothers & Sisters (senza contare il peso di Oscar, Emmy e Golden Globe che i due attori tengono sul comodino). Ma è la performance di Andrew Garfield nei panni arruffati di Peter Parker a sorprendere maggiormente: l’interprete angolamericano ha 29 anni (Peter Parker ne ha 17) e, dopo averlo visto in The Social Network e Non lasciarmi, non sembrava potesse avere il fisico del ruolo per l’eroe spararagnatele. Invece è il suo Peter Parker, scompigliato e brillante, inquieto e curioso, a conferire la scintilla di verosimiglianza sufficiente a sospendere l’incredulità, come il cinefumetto richiede. La metafora dell’adolescenza, che rende la storia dell’Uomo Ragno universale e potentemente identificativa, si accende soprattutto nelle sequenze in cui prende le misure al proprio corpo trasformato, inizialmente alieno. Una consapevolezza fisica che precede quella psicologica e morale del divenire adulti, incarnata, come mitologia vuole, dalle parole e poi dal senso di colpa per la morte dello zio Ben. Si dice giustamente che questo Spider-Man sia più cupo del suo predecessore, gravato com’è dai pesi dell’assenza e della perdita delle figure familiari, e, soprattutto, dei turbamenti del diventare grandi. Ma guadagna anche una nota lieve nella storia d’amore con Gwen Stacy, illuminata dall’evidente alchimia tra Garfield ed Emma Stone (e, probabilmente, dal fatto che i territori della commedia romantica sono congeniali al regista di (500) giorni insieme): la relazione sentimentale è un altro nodo di maturazione, ed è felice la scelta di rendere Peter e Gwen uniti nella complicità di un segreto condiviso, invece che separati dalla doppia identità di lui. A far le pulci al film, si potrebbe dire che dentro la sceneggiatura sono annidati troppi temi e che a farne le spese sia un villain sacrificato (nonostante l’impegno di Rhys Ifans) al racconto di formazione. Ma il finale contro il tempo tra gru e palazzi specchiati è un buon vertice di tensione e, se qualche storyline risulta accantonata, c’è sempre il sequel, previsto per il 2014, pronto a riprendere le fila della tela.