Destino incompiuto?
Le declinazioni dell’amore. Se Michael Haneke in Amour – Palma d’oro a Cannes 2012 – sceglie di rappresentare il sentimento più forte esaltandone il mistero nella “normalità” di una lunga vita insieme, Mia Hansen-Løve riavvolge la linea del tempo, torna all’età in cui tutto nasce e lì si adagia per domandare ai cuori le ragioni di un inspiegabile tumulto.
Parigi. Camille, 15 anni, ama Sullivan, 19. E lo ama come solo un adolescente sa fare: con impeto totalizzante che respira passione e si nutre di struggimento. Sullivan si lascia cingere dall’abbraccio adorante di Camille ma di quell’unione intravede le pericolose derive. Decide di partire per il Sud America. Camille resta sola, sospesa in un limbo temporale fatto di attese e paure. La speranza rifulge di echi distanti, parole di lettere che smorzano il grigiore di una routine piatta e soffocante. Poi, il silenzio. Sullivan si fa assenza inestimabile, dolore acutissimo. Per Camille, volto muto solcato di lacrime, è il tempo nero dell’implosione. Ma non quello della fine. Tra oscurità e luce esiste un confine labile lungo il quale il desiderio ritrova ancora i suoi palpiti, e la vita riscopre la gioia del futuro. Tempo della rinascita, anche grazie all’amore per l’architettura e per Lorenz, affascinante maestro di studi e di emozioni. Fino al ritorno, spiazzante, del tempo che fu, di quell’amore “per sempre” che risucchia Camille nella voragine dell’ossessione e della felicità idealizzata. Lieve e misurata nella rappresentazione di un rapporto che si sintonizza sui ritmi dilatati della natura – più che le parole valgono gli sguardi, i tocchi, l’unione dei corpi riscaldati dal sole e abbracciati dalla terra – Mia Hansen-Løve, ex penna dei Cahiers e già musa per Assayas, sceglie il registro della leggerezza vibrante di tensione per “tallonare” gli stati d’animo della sua protagonista. Senza mai eccedere, conferisce al senso lacerante della perdita il valore simbolico di un legame inscindibile con il passato, e alla sua protagonista riserva un’agonia che la scinde continuamente tra il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, e l’anelito di ciò che sarà. Perché il potere accecante del primo amore – che è assaggio di assoluto, bagno di pienezza – è un ricordo insidioso che si mimetizza tra le intenzioni sagge della maturità, ma poi esplode, improvviso, a rinfuocare i sensi e la memoria. La crescita di Camille non è altro che distanziamento apparente: immersa in un turbinio di faccende e tonalità emotive – efficacemente rese sul piano musicale da una colonna sonora ricca e variegata – non va oltre la reiterazione di uno schema autolesionistico, “sporcando” la propria immagine di donna con comportamenti da ragazzina. Si sporca un po’ anche il film che nell’imbrigliare la sua eroina nel gelo delle illusioni, oscura la bellezza composta della sua avviata maturazione. Manca il tempo della “salvezza” o, se non altro, una sua chiara prefigurazione. A chi scrive, però, piace pensare che, oltre il duetto dei continui ritorni, quel fiume “della vita” nel quale alla fine Camille si immerge, indichi una via nuova, non segnata, di un destino scevro di condizionamenti, ancora tutto da compiersi.