C’mon feel the noise!
Un giovane barista con la passione per il rock incontra per caso una ragazza che, come nella migliore tradizione americana (vedi E’ nata una stella) è fuggita dalla monotonia della sua vita di provincia per tentare fortuna nel grande luna park di Hollywood. Tutto il resto è rock and roll.
Liquidiamo velocemente una trama che non ha né le possibilità né l’ambizione di vincere il prossimo Premio Sergio Amidei per la migliore sceneggiatura cinematografica e concentriamoci sulle profonde sinapsi che questo film mette a nudo. Tutto parte nel 1763. Sì, avete capito bene. Prima del rock, del glam rock, dell’hard-rock dell’hair-rock, il reverendo Augustus Montague Toplady scrisse un inno cristiano dal titolo “Rock of Ages”. A più di duecento anni di distanza, nel 1983, i Def Leppard inseriscono nel loro album Pyromania una canzone dal titolo “Rock of Ages” che naturalmente non ha niente in comune con il precedente componimento se non il fatto di essere, anch’esso, un inno rivolto ad una divinità: il Dio del rock. Il film, scorporato da ogni velleità narrativa, racconta proprio questo: la transustanziazione delle persone nell’anima del rock più eccessivo, più potente, più globale, più democratico, ma anche più scanzonato e cialtronesco. Tutto è rock, dalla maglietta del giovane protagonista (Diego Boneta), alle mutande diaboliche della leggenda Stacee Jaxx (Tom Cruise) fino all’esorcismo tentato dalle comari cattoliche – capitanate dalla moglie del sindaco (Catherine Zeta-Jones) – nei confronti dell’icona felicemente atea dello stesso Stacee, lingua in fuori e corna ben in vista. Ci sono voluti sei anni per portare il musical scritto da Chris D’Arienzo sul grande schermo e il risultato è se non altro confortante per chi ha amato il rock e non il suo surrogato da talent show che tocca con Glee il suo abisso più profondo. Tom Cruise canta prima “Pour some sugar on me” dei Def Leppard e poi “Don’t stop believing” dei Journey con la sua voce e con il piglio di un vero frontman glam-rock, lasciando che siano le chitarre e le tastiere a comporre gli orpelli che hanno fatto grande il genere. Il film racconta, senza disincanto ma con molta nostalgia, la fine del rock da stadio alla fine degli anni ’80, schiacciato dall’avanzata delle prime boy band (New kids on the block, Take That) e prima della parentesi del “grunge”, proprio come “Singin’ in the rain” rappresentò il manifesto della conversione del cinema muto in sonoro. Consiglio alla visione: scegliete orari non convenzionali, evitate le multisala, portate con voi molti amici rockettari. Fate in modo che nessuno vi dica “shhh” quando canterete a squarciagola “we’re not gonna take it!”. Io l’ho fatto. Forse è per questo che sono uscito dal cinema col sorriso.