Sacha Baron Cohen. Fine del rodaggio
Buio in sala, sullo schermo appare un epitaffio: “Questo film è dedicato alla memoria di…Kim Jong-il”. Tiriamo un sospiro di sollievo, Sacha Baron Cohen non è cambiato, non ha ceduto alla tentazione di ammorbidirsi costruendo la solita epigrafe che, in quanto “soglia del testo”, risulterebbe estranea all’impianto narrativo rivelandosi unicamente quale manifestazione reale dell’autore. No, ne Il dittatore l’ironica dedica al despota nordcoreano ha una mera funzione introduttiva, e ci fa immediatamente comprendere il tono e le tematiche del film.
A differenza di Borat (e in parte anche del più recente Brüno) che si adoperava nello svelamento dei rottami di una nazione giocando con l’ambiguità del linguaggio documentaristico e della Candid Camera, nel suo ultimo lavoro Sacha Baron Cohen decide di giocare la carta della fiction scommettendo unicamente sulla scorrettezza politica tipica del proprio stile.
Ed è una storia densa, quella raccontata nella vicenda, popolata dal più idiota dei carnefici: il generale Aladeen, governatore di uno stato fittizio situato nel nordafrica. Idiota perché non ha nulla della genialità machiavellica dei “colleghi”, anzi, pare voler a tutti costi far parte del coro agendo per imitazione dei propri modelli: circondato da prostitute (ovvero da donne dello spettacolo), condanna a morte chiunque a proprio piacimento, ma soprattutto si incaponisce nel portare avanti progetti di costruzione di armi nucleari. Per quest’ultimo motivo viene convocato a New York dalle Nazioni Unite non senza essere bersagliato da manifestanti d’ogni genere. Ma si sa, basta un collaboratore doppiogiochista, un sosia (elemento fondamentale per ogni narrazione di stampo complottista) e la congiura è fatta.
Ma c’è un piccolo particolare: Aladeen, come Bin Laden, ha una barba folta che lo contraddistingue. Tolta quest’ultima (come i Baziniani baffetti di Hitler) l’elemento iconografico svanisce e con questo la propria credibilità.
La densità tematica della vicenda ci fa subito comprendere la capacità del comico britannico di costruire una storia dall’innegabile verve comica. Con Il dittatore, però, non ci troviamo unicamente dinanzi ad una parodia che si adopera come cinica volontà di rappresentare la stupidità dell’intero genere umano, non solo delle élites. Per questo abbiamo già Trey Parker e Matt Stone con il loro sporco lavoro; riguardo a ciò la contestatrice vegan-eco-femminista interpretata dalla Anna Faris di Scary Movie, ad esempio, potrebbe tranquillamente ritrovarsi inclusa in un episodio di South Park.
Tuttavia, l’assoluta particolarità de Il dittatore coincide con la definitiva attestazione di un personaggio, con i propri tic, le proprie particolarità, il proprio mondo fittizio (e il proprio rapporto con esso). Non importa il linguaggio scelto (ovvero non importa se si tratta o meno di fiction, di riprese dal vero, di ambiguità fra generi) come non importano le differenze iconografiche dei vari personaggi esposti nei precedenti lavori. Il dittatore rappresenta, per l’icona Sacha Baron Cohen, la decisiva fine del rodaggio.