Orgoglio idiota
Haffaz Aladeen, viziato e vizioso, è il dispotico dittatore di Wadiya. Le donne sono parte del suo esercito e “pozzo” da cui attingere per soddisfare i suoi istinti, immortalandole in una polaroid. Ama le bombe atomiche e la dittatura, l’idiozia è il suo marchio. Qualcosa cambia quando il “ditatorialissimo” Aladeen sbarca a Manhattan, richiamato dalle Nazioni Unite per discutere sulla situazione del suo paese.
Rapito, privato della sua “santa barba”, sostituito da un sosia, è costretto a vivere da cittadino comune.
Questa è la storia di Il dittatore, film di Larry Charles, la nuova pellicola con Sacha Baron Cohen, tornato nei cinema dopo Borat e Brüno. Aladeen è la summa dei dittatori e li imita estremizzandoli in una sintesi del male: Bin Laden viene richiamato dagli inferi per donare al nostro la sua barba, feticcio del potere, e la sua presenza, materializzata dietro ad una tenda (il dittatore non è morto ma vive da Aladeen). La visione dei cittadini “cinematografici”, speranzosi in una nuova libertà, che fanno a pezzi la statua del dittatore “di celluloide” ci ricorda la fine di Saddam Hussein; invece, per abiti e soldatesse adoranti, non possiamo non pensare a Gheddafi e ai suoi teatrali sbarchi in Italia. Lo sappiamo bene, il progetto di Il dittatore non è nuovo, Charlie Chaplin l’ha preceduto con Il grande dittatore, in cui il sosia hitleriano gioca con le sorti del mondo, proprio come fuori dagli studi stava facendo il vero Hitler, ma qui, nonostante i tre dittatori siano morti e di tempo ne sia passato, il furto di senso non perde d’efficacia e di forza. L’opposizione originale/copia, realtà/finzione, tre dittatori/Aladeen continua all’interno della pellicola: il capo e il sosia si alternano in una sorta di principe e povero crudele e cinico in cui il sosia è ancora più idiota dell’originale. Mentre l’uno all’ONU recita male la sua parte, l’altro vaga, in un mad world, cercando di salvare il suo di mondo dalla tanto temuta e famigerata democrazia. È inquietante ma necessario, ridere di noi ed è questo che ci insegna Il dittatore raccontando ciò che siamo, ciò che abbiamo subito e i soprusi compiuti. Tutto il film è pervaso dalla sfrontatezza e dall’ironia crudele e brutale di Baron Cohen, corpo comico, buffo e irriverente, che diventa, sullo schermo, uno schlemiel (in yiddish persona sciocca, ingenua), politico pernicioso di cui ci prendiamo gioco. Attraverso il depotenziamento del dittatore si banalizza il suo stesso “corpo” e alla fine si arriva addirittura a tifare per lui; sorridiamo di e su argomenti di cui non dovremmo, rendendo più sopportabili omnia mala mundi, e guardiamo con occhi meno ingenui al totem della democrazia. Baron Cohen ci ricorda che, come dice Benjamin, “è ancora il `pensiero grossolano´ a rivelarsi il più favorevole”.