A volte ritornano…in 3D
“Non è per niente come noi” cantano in coro i francesi di un paesino del ‘700.
Non è della Bestia che stanno parlando ma di Belle, la fanciulla che divora libri e rifiuta i playboy. Soprattutto Gaston – “il più ganzo, il più furbo” ecc. ecc. – idolo della folla, campione di muscoli e di idiozia. E se alla coppia del titolo aggiungiamo il padre di Belle, inventore bizzarro e visionario, i “freak” del film sono almeno tre.
La Bella e la Bestia è dunque un’opera “mostruosa” nel senso più ampio e positivo del termine. Lo era già nel ’91, quando Gary Trousdale e Kirk Wise hanno adattato per la Disney l’omonima fiaba aggiudicandosi due Oscar (per la miglior colonna sonora e la miglior canzone) e ben sei nomination, tra cui quella per il miglior film (primato imbattuto nell’animazione fino ad Up nel 2010!).
Che sia di nuovo in sala è senz’altro un’ottima cosa. Che sia stato il 3D a riportarcelo probabilmente no, ma è un compromesso tutto sommato accettabile. Sia chiaro: la logica dilagante del 3D per riproporre vecchie glorie a un prezzo maggiorato è una prassi furbetta e detestabile. Non rende merito alle suddette glorie e tantomeno al 3D. Ma nel caso specifico il film si adatta senza scossoni, non tanto per il valore aggiunto dalla tecnologia quanto per una naturale predisposizione alla profondità già presente nell’originale.
Dopo un prologo in foggia di piatto vetro istoriato, il mondo che si spalanca ha ben altro spessore.
Dall’amena cittadina al bosco selvaggio, fino al castello raccapricciante della Bestia, il percorso straordinario di Belle si inoltra in luoghi articolati e complessi, tanto sul piano del significato quanto su quello della rappresentazione. La strutturazione in profondità degli ambienti riflette i molteplici livelli di lettura, dall’accettazione dell’altro attraverso l’amore (il castello che si trasforma) al confronto con le pulsioni inconsce (il bosco notturno), dalla scelta consapevole tra quelle selvagge ma favorevoli e quelle realmente distruttive (la Bestia sconfigge i lupi salvando Belle e conquistandola) alla lotta per affrancarsi dalla morale comune (la patinata ottusità del paese).
Nel rifiuto di Belle del pretendente “ideale” il film recupera quella critica alla condizione della donna già presente nella fiaba di Madame Villeneuve, poi ridotta nella versione di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont. La denuncia del manicomio come strumento di soppressione dell’immaginazione, impersonata dal povero Maurice, si aggiunge inoltre ai tanti meriti formativi, mentre le splendide coreografie rivivono i fasti del passato.
E se ancora non dovesse bastarvi riguardatelo almeno per le lancette impazzite di Tockins e il francese maliardo di Lumière. Meritano entrambi una spolverata.