Meravigliosa creatura
Compirebbe 86 anni. Ancheggerebbe ancora, nonostante l’età farebbe impazzire gli uomini di mezzo mondo, nel ricordo di quel corpo mozzafiato e di quella natura svampita e fragile che l’aveva contraddistinta. Invece è diventata un Mito, impressa nell’eternità.
E, proprio sul binomio mito/fragilità, si fonda il film di Simon Curtis, Marilyn (titolo originale My Week with Marilyn), presentato al Festival Internazionale del Film di Roma, ispirato ai diari The Prince, The Showgirl and Me e My Week with Marilyn di Colin Clark – terzo assistente di Laurence Olivier/Kenneth Branagh -, che durante la sua prima esperienza lavorativa in Il principe e la ballerina, incontra l’attrice sul set e fra i due si instaura un rapporto profondo di cura e “donazione”. Una storia d’amore, per Marilyn/Michelle Williams e per il cinema tout court, e la cronaca di un dolore, quello dell’attrice, quello di Clark/Eddie Redmayne e di noi spettatori che assistiamo al disfacimento della Diva e alla sua “svestizione”, per arrivare alla Marilyn più autentica, Norma Baker. Così, grazie a Clark, entriamo nel camerino della star e la vediamo con gli occhi pieni di lacrime, “drogata” di sofferenza, pillole e alcol, stesa sul letto non per conquistare ma per lo strazio che la logora, non permettendole neppure di stare in piedi. Siamo negli occhi di quel giovane uomo, affascinati da quella donna così instabile che di fronte a noi si dimostra priva di schermi, bisognosa di attenzione, protezione e amore. Così si immerge nuda nell’acqua – come ogni cinefilo l’ha vista -, in quella stessa materia da cui tutto è iniziato: da lì è uscita la Venere/Marilyn, ammiccante e seducente, e questa volta, in questa discesa nell’elemento primordiale, ci appare bella più che mai, incantevole, delicata e struggente, non “della materia di cui sono fatti i sogni”, ma di Corpo ingenuo, appassionato, vibrante nel dolore e nell’amore. La Williams ci dona una Marilyn meravigliosa, scegliendo non la strada della mimesi ma affondando le mani in quel dramma esistenziale che tutti noi portiamo dentro: e non c’è più solo quella bocca socchiusa, quelle labbra tumide e protese verso qualcuno, quella camminata, ma viene anche portato alla luce tutto quel groviglio doloroso di emozioni che la rendeva un’attrice così reale e autentica. Se Curtis lavora a un film calligrafico e didascalico, senza voli pindarici o colpi di genio, sono proprio gli attori a dare quel qualcosa in più, ciascuno perfetto nel suo ruolo e lo spettatore, immerso nella giostra del Cinema, si ritrova in quella sala di proiezione assieme a Olivier e a Clark a guardare meravigliato ed estasiato quella splendida e sofferente divina creatura.