Sguardi inefficaci
Il titolo italiano omette, ma il film di Simon Curtis si concentra sul periodo in cui Marilyn Monroe ha lavorato alla commedia di Laurence Olivier Il principe e la ballerina, nel 1956. Il narratore, realmente esistito, è Colin Clark, facoltoso figlio di papà con la passione per la settima arte che grazie alla pura determinazione e ad un po’ di intraprendenza riesce a presenziare sul set di Laurence Olivier come terzo assistente alla regia, e soprattutto a condividerlo con la regina vivente delle icone, quella Marilyn Monroe già entrata nel mito e capace di far istantaneamente innamorare ogni individuo.
Il protagonista senza troppo appeal e il resto dei personaggi secondari non brillano per scrittura né per presenza scenica: non la Vivien Leigh pragmatica ma un po’ invidiosa di Julia Ormond, non la Sybil Thorndike di Judi Dench, non la povera costumista Emma Watson, suo malgrado rivale in amore della diva, e tristissimo ripiego dopo la sbandata del protagonista. Si salva in parte solo il Laurence Olivier di Kenneth Branagh, la cui profondità psicologica è però affidata più ad “a parte” da confessionale che alla scrittura del carattere. Il tutto a fare da sfondo (piatto come le scenografie posticce di una commedia d’epoca) a Michelle Williams, che si immerge con efficacia nei panni, nel corpo e soprattutto nell’espressività di Marilyn. Simbolo erotico inaccessibile ma non troppo, piantagrane, alcolizzata oppure matta, Marilyn è sempre filtrata attraverso gli occhi di altri: peccato che quelli di Colin siano troppo abbagliati dall’aura semi-divina dell’attrice per poter dar luogo ad un punto di vista stimolante.
Qualche spinta interessante nei tentativi di misurare il talento dell’attrice (qui ovviamente ritenuto inequivocabile, e il personaggio di Paula Strasberg che non si stanca di ripeterle la sua bravura è lì a ricordarlo con fin troppa insistenza), abitata dalla naturale propensione a diventare qualcun altro, indipendentemente dall’uso del Metodo: il film restituisce infatti una donna a tratti perfettamente consapevole del suo personaggio (“Devo essere lei?”), quando non è annebbiata da alcool e psicofarmaci e, soprattutto, quando può appoggiarsi letteralmente e metaforicamente al braccio di qualcuno. Marilyn è un ritratto non particolarmente profondo e registicamente poco significativo che cerca di muoversi tra la disamina, inevitabilmente parziale e viziata, della donna fragile e spezzata da svariate sofferenze, e la conservazione del mistero sfuggente del suo mito. In questi termini, dell’icona cinematografica principale del XX secolo non è rimasto molto da dire: Marilyn è la conferma che forse è il caso di passare oltre.