Abbiamo già avuto modo di scrivere, in passato, del piacere un po’ paradossale di guardare i festival da lontano. Senza mettere piede in Croisette o al Lido, pare quasi di indovinare il profilo dei programmi e l’identità della manifestazione. Per esempio, è sensazione comune che Cannes 2012 sia stato inferiore alle attese e agli anni precedenti.
Ma, ovviamente, chi lo dice? È una generica valutazione che proviene dai media, anche se mette insieme curiosamente la critica-cicaleccio di Natalia Aspesi e la critica militante delle riviste più dure e pure. E allora giù a commentare il fatto che il cinema internazionale sia in crisi, che questo è quel che passa il convento, che il festival di Cannes fa da termometro al mondo, etc.
Ma sarà poi vero? A chi scrive sembra che i festival, che pure sopravvivono meglio delle sale alla lenta erosione del primato spettacolare del cinematografo, non facciano altro che dimostrare la scarsa forza espressiva del prodotto. È davvero difficile individuare titoli, negli ultimi anni, in grado non solo di rappresentare al meglio l’immaginario contemporaneo (non mancano autori e film eccellenti, anche se ben poco importati da noi), ma anche e soprattutto di porsi al centro dei discorsi culturali collettivi. Non credo sia colpa del cinema in sé, come se fossimo di fronte e un generale stato di casuale involuzione. Credo che le rivoluzioni mediatiche e sociostoriche di questi anni abbiano via via sottratto terreno al mezzo cinematografico per come lo si è sempre immaginato. A voler essere molto pratici, e concreti, per esempio, siamo sicuri che il formato classico del lungometraggio (tra i 90 e i 120 minuti) sia ancora una convenzione adatta al mondo di oggi? Non si gridi allo scandalo: la durata e la caratteristica dei film narrativi sono l’esito di un patto industriale molto preciso avvenuto negli anni Dieci, che il pubblico ha accolto con favore. Ma non sta scritto da nessuna parte che le cose debbano continuare così in eterno, non è certo una legge immanente. Le opere e la loro adattabilità formale al mondo esterno sono parte integrante di una filosofia dell’arte, basta leggere il bel La fidanzata automatica di Maurizio Ferraris per capirlo. Dunque, chiediamoci perché la serialità televisiva ha stravinto il confronto dell’ultimo quindicennio, o perché il cinema come serbatoio di immagini è ancora così vivo laddove lo si sbrana e lo si smembra a scopi voluttuari e artistici, da Youtube all’arte contemporanea. E perché sia così in difficoltà nella sua identità testuale più tradizionale. Non tocca ai critici indicare la via, casomai all’industria e agli autori; ma perché non immaginare altre durate, altri formati, altre narrazioni, più vicine all’epoca del postcinema?