Violenza non isolabile
Per la collana “Il piacere del cinema” edita da Teodora, Vieri Razzini ha recentemente curato un cofanetto che racchiude due dei film di Ingmar Bergman girati sull’isola di Fårö, La vergogna e Passione, più un documentario di mezz’ora, Images From The Playground, co-prodotto dalla World Cinema Foundation di Martin Scorsese in collaborazione con la Fondazione Ingmar Bergman e assemblato da Stig Björkman.
La vergogna e Passione hanno diversi aspetti in comune: oltre ad analogie produttive (entrambi girati nel 1968, in entrambi Max Von Sydow e Liv Ullmann recitano una coppia), vi si rintraccia un sottotesto tematico simile, anche se trattato in modo radicalmente diverso. In entrambi i film si ragiona sulla violenza, sull’esilio autoinflitto, sulla solitudine e sulla difficoltà a relazionarsi con l’altro. In entrambi i film si parla di disumanità senza ragione che attanaglia gli esseri umani. Se ne La vergogna è la guerra che porta terribili conseguenze nell’animo umano, in Passione la crudeltà appare connaturata all’uomo stesso: l’inspiegabile mattanza di animali ad opera di uno sconosciuto è il più evidente dei segni rosso sangue che serpeggiano lungo la pellicola; l’uccellino ucciso per pietà, l’esplosione di violenza domestica tra Andreas e Anna, lo stesso incidente che ha distrutto la vita di lei e che si tinge delle oscure tinte dell’omicidio. Negli intrecci passionali tra i quattro protagonisti (gli altri due sono Eva/Bibi Andersson e Elis/Erland Josephson), solo il disincantato Elis sembra aver trovato la chiave per sopravvivere all’insofferenza e all’inospitalità del genere umano, preferendo immortalare le nervature emozionali in ritratti fotografici dalla pretesa spontaneità.
I violinisti Jan e Eva, protagonisti de La vergogna, sperimentano su di sé l’illusorietà della purezza: la guerra li va a stanare, ed è l’uomo il più debole, già da prima egoista ed ora preda della contaminazione dell’orrore, che lo rende rassegnato e sanguinario al tempo stesso.
In tutto ciò l’isola di Fårö si dà nella sua inospitalità quasi primordiale: da un lato scelta come rifugio, dall’altro teatro della sopraffazione più feroce. La stessa isola che è residenza di Bergman, suo rifugio e per un po’ protagonista, appunto, del suo immaginario. Corto circuito tra pubblico e privato che riecheggia negli home movies che compongono Images From The Playground: il materiale riportato alla luce, non completamente inedito, è quello girato in pellicola 9,5 mm dallo stesso Bergman dentro e fuori dai set tra il 1953 e il 1965. Se Bergman regista si dedica esclusivamente all’esercizio del controllo sulla scena e sugli attori, Bergman cineamatore sembra ricercare la spontaneità delle proprie muse, Harriet e Bibi, e dei suoi “compagni di giochi”; ma è un’illusione, e c’è traccia di quel “possesso” di cui le protagoniste ormai anziane parlano affettuosamente in voice over nelle immagini di Bergman stesso, intorno ai suoi attori, alla sua scena, alla sua famiglia cinematografica.