Identità violata
La fuga di Martha è un film fatto di sensazioni, viaggia sui binari della percezione soggettiva e ne abbraccia i deragliamenti, in un vortice di echi sensoriali che fagocita – elegante nella sua sottile crudeltà – tutto quel che resta della capacità umana di assegnare un posto sicuro ai propri ricordi.
Esterno, giorno. Una giovane donna corre terrorizzata attraverso il bosco. È in fuga da qualcosa, da qualcuno. Confusa, si ferma per chiedere aiuto. Esita, ma l’orrore che si porta addosso le dà la forza di lasciarsi trovare. Poco dopo, la ragazza è sulla via del ritorno verso quella realtà d’origine, di fatto incarnata dalla sorella maggiore, dalla quale due anni prima era scappata. E che aveva sostituito con una famiglia “diversa”. L’esordiente nel lungometraggio Sean Durkin concepisce un’opera lieve e inquietante in grado di fluttuare tra i meandri di una mente alterata, per farsi narrazione liquida di eventi appartenenti a cornici spazio-temporali (in)distinte, riempite di contenuto memoriale mai del tutto disvelato fino in fondo. Intorno alla figura della protagonista – la “fu” Martha rinata Marcy May in seno a una comunità dall’aspetto bucolico ma dall’organizzazione interna propria di una setta gerarchica – il film costruisce la principale via di accesso alla visione. Nella rete di rimandi continui tra passato e presente, i raccordi sonori e sul movimento dilatano le azioni della rediviva Martha “usando” l’immagine della ragazza quale strumento di passaggio da una realtà all’altra. I gesti ripetuti, le situazioni che sanno di déjà vù, innestano sulla Martha “del qui e ora” la Marcy May “del là e allora” in un crescendo di entropia mentale che, oltre a frantumare le linee del tempo, sfianca i sensi e acuisce il disagio della bellissima anima tormentata, ancora una volta prigioniera tra le pareti della nuova casa (la villa sul lago della sorella Lucy e del marito di lei, Ted). Casolare di campagna e residenza lagunare diventano ambienti speculari, solo illusoriamente distanti: all’accerchiamento psicologico del primo, veicolato da disumanizzanti forme di potere come gli stupri iniziatici e le manipolazioni, subentra, nella seconda, l’inquietudine figlia della paranoia e di un autodistruttivo senso di colpa. Il cerchio si chiude con lo svuotamento raccapricciante e progressivo del diritto all’identità. Voluto, nel contesto di dittatura occulta impiantato dal perverso leader Patrick; prefigurato, in quello geneticamente incapace alla comprensione di Lucy e Ted. Questa lenta spoliazione dell’essere traspare dagli occhi, filtra dalla voce, affiora sul corpo rannicchiato e inebetito di Elizabeth Olsen, splendida interprete di donna-involucro prosciugata della propria linfa vitale e “insufflata” di regole e dottrine inespugnabili, emanazioni ossessionanti della volontà di dominio altrui. Ineludibile il destino improntato al nomadismo della personalità: i nomi sfioriscono nell’inconsistenza, gli spazi si annullano nell’isolamento simbolico di un volto atterrito e compresso nei bordi dell’inquadratura. Il tempo che resta è quello, muto e straziante, della solitudine.