Vivere il capitale
È solo la storia di un uomo. O no? Eric Packer, genio che legge il mercato e ne fa un’impresa; l’uomo che ha una casa per non dormire e di giorno vive in una limousine informatizzata dove compaiono personaggi per le sue esigenze; Eric manipola il cybercapitale quanto il cybercapitale ha manipolato l’andamento dei suoi ventotto anni, ossessionato dal controllarlo ma instabile a catena se perde il senso di un sistema razionalmente indovinabile per evoluzioni e flussi, come lui.
È solo una storia. O no? Almeno due. La storia di Eric, allegoria di un capitale personificato nell’accumulo per accumulo e nella fragilità sessodipendente in cerca sempre del piegare a sé (per dominio o egoistica, adolescente, ricerca di risposte); la storia degli altri, di chi rifiuta la velocità del capitale: gli esclusi per scelta (folle che gridano al topo come unità di misura per evitare il futuro), o di chi critica e parassita il capitale ma lo scopa, e di chi non regge la velocità e diventa anacronismo come la parola walkie-talkie. Benno Levin è la loro allegoria finale, il perdente autoemarginato che sfida Eric, due allegorie che devono duellare, nel più tragico e farsesco degli scontri escatologici: lo scarto del capitale che incontra il capitale. È solo una storia di oggi? O è LA storia di oggi? Questo porta a pensare che sia il film più ambizioso sull’oggi. E in parte è vero. Cronenberg non poteva fare film più chiaro e ambiguo: non solo adatta ma replica il romanzo, per farne una recita inesorabile e assurda. Quindi in un film fondato sulla parola: un cinema dell’introversione assoluta era il lascito di A dangerous method e Cosmopolis ingigantisce la debolezza dell’immagine nel tempo: la parola è un flusso tanto quanto l’andamento pazzo dello yen, spavalda e grande e ridicola da sembrare continuamente una sintesi del suo uomo e del suo tempo ma talmente megalomane da contraddirsi e superarsi, per cui nessuna parola basta; l’immagine è la registrazione immobilizzata di queste parole e della loro tragedia ridicola: una traversata androgina, quadri distaccati che soltanto nella (memorabile) sequenza finale tra Eric e Benno si abbandonano a un movimento controllato. È per questo che potrebbe essere un film di Bresson ma anche una farsa seria e l’ambiguità è tale da non stabilirlo. Potrebbe essere un nuovo Dillinger è morto, e lo è, pur con intuizioni cinematografiche assai minori, ma ha un protagonista troppo razionale per comprendere il divario tra anomalia e accettazione dell’anomalia. Definirlo un road movie sarebbe limitarlo quanto definirlo un altro Ulysse. Meglio definirlo un grande film che sembra non voler esserlo, o almeno rifiutare di esserlo per vivere pienamente il nuovo capitale. Non in cerca di una nuova carne, ma di conseguenze; e la dimostrazione che il teatro espressionista nel 2012 è già finito: dagli uomini si attende un urlo che non arriva mai.