“L’animazione è un grande imbroglio”
L’affermazione di Pete Docter (Monster & Co., Up) lascia perplessi. Ma la Mostra Pixar – 25 anni d’animazione, aggiornamento di quella al MoMA di New York di cinque anni fa poi portata in tour mondiale e infine approdata in Italia, prima a Milano e ora a Mantova, rende tale provocazione più che convincente.
In un percorso tra disegni, bozzetti, modellini, installazioni e video, il visitatore può, per la prima volta, confrontarsi non con il risultato definitivo con cui il famoso studio d’animazione sorprende e delizia da un quarto di secolo il suo pubblico, quanto con il processo creativo che porta e ha portato alla realizzazione di straordinari lavori rivoluzionari del modo di concepire e fare animazione per il grande schermo, sdoganandola una volta per tutte dall’epiteto di cinema “per bambini”.
Come sostiene John Lasseter, storico direttore creativo della Pixar, nonché regista a sua volta, “la maggior parte del […] lavoro avviene durante lo sviluppo di un progetto, quando si lavora sulla trama e sull’aspetto del film. Lo spettacolare patrimonio artistico creato per ciascun film viene raramente visto al di fuori dello studio, ma il film finito che inviamo in tutto il mondo non sarebbe possibile senza di esso”. La sospensione dell’incredulità, necessaria al fruitore di una qualsiasi opera di fantasia al fine di poterne godere appieno, nel cinema d’animazione dev’essere indotta in maniera ancora più efficace, dovendo lavorare su luoghi e figure immaginarie. L’imbroglio di cui parla Docter, richiede quindi un’accuratezza tale nella sua costruzione da risultare veritiero nonostante l’evidente illusorietà dei soggetti sullo schermo.
Nonostante la modernità creativa e tecnologica di cui la Pixar si è sempre dimostrata conoscitrice e fautrice, ciò che sorprende è il legame che questi autori instaurano con il cinema d’animazione classico, quello dei disegni a mano “a passo uno”, facendo così del computer non un “attore” del processo creativo, ma il veicolo di un’artisticità che trova nel codice binario il suo mezzo ideale di espressione, di cui però il lavoro su carta resta ancora la prima, indispensabile fase.
Il zootropio e l’installazione “Artscape” creati appositamente per l’occasione, illustrano chiaramente quanto detto. Se il primo, dispositivo ottico in voga nel XIX secolo, viene utilizzato per spiegare il principio dell’illusorietà del movimento su cui anche la Pixar basa il proprio lavoro, il secondo, attraverso una simulazione dinamica 3D di movimento negli ambienti dei film abbozzati a pennarelli, matite e carboncini, presenta il perfetto connubio tra tradizione e progresso che caratterizza lo stile della casa di produzione.
L’ultima sezione della Mostra è un excursus sui corti realizzati da Lasseter e dai suoi collaboratori tra il 1984 e il 1989, prove “tecniche” per il fatidico 1995, quando Toy Story segna il passaggio epocale dell’animazione digitale dal corto al lungometraggio, ennesima tappa del processo di innovazione artistico-cinematografica che ha caratterizzato e ancora caratterizza il lavoro della Pixar. Giunta ormai al trentaseiesimo film, Ribelle – The Brave (atteso in Italia per settembre 2012), già dalle prime immagini presentate in anteprima all’esposizione, questa “fabbrica di sogni” dimostra l’instancabile desiderio di perfezionare e migliorare sempre la propria arte, per riuscire a imbrogliare lo spettatore ancora una volta. Verso l’infinito e oltre.