“È tutto un sogno” “No, ci siamo appena svegliati”
Le ventiquattro drammatiche ore che precedono l’esplosione della crisi finanziaria del 2008, originatasi negli Stati Uniti e poi allargatasi a macchia d’olio sull’Europa, sono raccontate “dall’interno” attraverso gli uomini chiave di una grande banca d’investimenti, epicentro della crisi.
Con Margin Call esordisce sul grande schermo J.C. Chandor (da quindici anni regista di spot pubblicitari) con l’ambizioso progetto di raccontare i concitati momenti vissuti da quella “sporca dozzina” di uomini che, tra giacche impeccabili, auto di lusso, stipendi a sette cifre, si trovano a scoprire, con una notte di anticipo, la devastante portata della crisi pronta ad abbattersi sul mondo finanziario globale. Peter, Will, Sam sono catapultati in uno scenario catastrofico in cui le regole e le convenzioni del mercato che per decenni hanno imparato a seguire e a piegare alla logica del profitto più esasperato perdono ogni valore. Per provare a salvare loro stessi e i conti della banca rimane appena il tempo per un’ultima margin call: si tratta di vendere azioni ormai prive di alcun valore truffando i compratori senza nessuno scrupolo morale. Chandor costruisce un film compatto e teso che si regge su una sceneggiatura eccessivamente bilanciata nel lasciare lo stesso spazio ad ogni personaggio e una regia preoccupata di dover concedere alla serie di grandi nomi presenti, Stanley Tucci, Paul Bettany, il “vulcaniano” Zachary Quinto, il “mentalista” Simon Baker, Demi Moore (inutile e monoespressiva), un piccolo momento di gloria che solo i “grandi vecchi” Kevin Spacey e Jeremy Irons mostrano di meritare. L’insieme risulta poco spontaneo e piuttosto standardizzato, mentre lo sguardo del regista è troppo flebile quando vorrebbe farsi critico nei confronti della società capitalista occidentale. Se la sceneggiatura originale dello stesso Chandor (nominata agli Oscar) riserva comunque qualche dialogo incisivo, il film ha il suo momento migliore quando, allentati i vincoli di scrittura e l’alternarsi didascalico di totali, carrelli, primi piani e controcampi, si concentra sull’uomo, lascia “respirare” l’attore e il gesto torna preponderante sulla parola. E’ l’ultima inquadratura di Sam (Spacey): umiliato da un sistema del quale ha fatto parte e che non è riuscito ad abbandonare nemmeno questa volta, lo vediamo tra le lacrime scavare in giardino per seppellire l’amato cane. Il corpo dell’animale è nascosto alla vista, non è destinata a lui quella fossa. La pala penetra rabbiosa nel terreno e solleva le zolle, tutto si fa buio, ma il suono continua implacabile. La tomba dello sfrenato capitalismo occidentale, scavata da quegli uomini che hanno prosperato al suo servizio, si allarga minacciosamente.