New York, New York
Margin Call si apre con un grandangolo su Manhattan, che in questo periodo nelle sale è anche teatro della battaglia tra “I vendicatori” e l’esercito alieno. Come già fatto notare su queste pagine, a riguardo proprio di The Avengers, New York sembra essere la città eletta per rappresentare le battaglie e i pericoli che interessano il nostro mondo, tanto quelli metaforici e immaginati, quanto quelli reali e quotidiani, come la crisi finanziaria degli ultimi anni, assumendo contemporaneamente sia il ruolo di simbolo del declino e delle ferite sofferte dalla nostra contemporaneità, che di quello della speranza e del possibile riscatto, portando anche su di sé entrambe le facce della medaglia del sogno americano oggi.
Margin Call vuole raccontarci i retroscena della crisi finanziaria, attraverso la notte di passione di un’importante banca che ha scoperto il rischio di un prossimo e inevitabile fallimento, e che per evitarlo inquina il mercato. Alcune inquadrature, insistite, filtrate dalle vetrate e dalle terrazze del palazzo in cui si sta consumando il dramma, sullo skyline notturno di Manhattan, sulle sue strade trafficate e sulle sue luci perenni non sembrano certamente motivate solo da immediate e semplici esigenze di ambientazione; non sono semplici sfondi. New York, proprio come in Wall Street di Oliver Stone, altro film che più di una volta insiste e si sofferma su scorci ed edifici della città, diventa quasi un ulteriore personaggio distaccato ma sempre presente, una sorta di deus ex machina che ha offerto ai protagonisti modelli di vita, di arricchimento, che ha assistito alla deriva morale della finanza, e che osserva trascorrendo la notte come al solito, come se la tempesta che presto sommergerà il mondo non stia succedendo e non interessi il suo stile di vita. Non solo sede “geografica” della finanza mondiale, ma più profondamente emblema e quasi “incarnazione” dei valori che la regolano e delle loro degenerazioni.
Sulla cornice significante dei grattacieli di Manhattan, il film di J.C. Chandor, rispettando (quasi completamente) l’unità di luogo, tempo e azione, riesce a riprodurre la concitazione della notte raccontata e l’angoscia dei protagonisti, anche grazie ad un ritmo costante e robusto. Si limitano al massimo le deviazioni narrative e descrittive (con poche eccezioni, ma significative, come quella che riguarda il dirigente interpretato da Kevin Spacey) non strettamente legate a quello che sta succedendo nella banca, e ai ruoli dei vari personaggi; allo stesso modo le psicologie sono limitate, ed esposte quasi per accenni, giusto per far sì che i caratteri non siano bidimensionali e che si crei un minimo di empatia. Per il resto il film sembra volere essere un “documentario di finzione”, quasi come il “documentario ricostruito” con cui era stato definito il cinema di Francesco Rosi: l’obiettivo è raccontare e spiegare, nel modo più plausibile possibile ma senza la pretesa di essere realtà che ha il documentario, i retroscena di un fatto storico e le sue cause, cercando di rendere coinvolgente la narrazione anche per chi non è interessato ed esperto dell’argomento, come il bambino e il labrador citati dal presidente.