Intima visione
Parlare di Isole significa, almeno per coloro che hanno visto il terzo lungometraggio di Stefano Chiantini sul sito Repubblica.it, fare i conti non solo con la “sostanza” del film, un delizioso esempio di come un certo cinema italiano abbia ancora (se glielo si lascia fare) qualcosa da dire. Per Chiantini – e per Gianluca Arcopinto che lo ha distribuito – internet diventa, di fronte alla chiusura delle sale che strema il giovane cinema d’autore, un’ancora di salvezza.
Incontrare il loro film sul web non rappresenta un elemento accidentale: che la modalità di fruizione incida sul testo esaltandone alcuni aspetti e facendone passare inosservati altri è un dato di fatto talmente ovvio da passare quasi inosservato, se non fosse che in Isole ha una rilevanza particolare. Nel film di Chiantini ci si imbatte in simbologie trasparenti e in sensazioni epidermiche che rivelano l’intimità nascosta dei tre protagonisti, uniti da un destino di incomprensione e di solitudine. Le loro mancanze, il loro essere estranei alla normalità per sorte o per scelta, li rende marginali ancor prima che emarginati. Don Enzo è il prete della comunità, reso disabile da un malore improvviso. Sotto la sua ala protettiva si nasconde Martina, muta nel suo silenzio doloroso e inspiegabile, e trova rifugio Ivan, immigrato irregolare osteggiato dalla popolazione locale. Il loro amore fugace nasce da una comprensione silenziosa tra i corpi, che non anela direttamente alla congiunzione carnale ma passa per il linguaggio della natura e indugia nella tenerezza dei gesti e degli sguardi. Le api che Martina tratta con reverenza, la cui riservatezza viene colpevolmente disturbata da Ivan quando tenta con loro un primo maldestro approccio, pretendono un’educazione alla conoscenza rispettosa dell’altro. Simboleggiano inoltre l’operosità, soprattutto quella di Ivan, preferito da Don Enzo alle cure di sua sorella, efficiente ma ansiogena e prepotente. Il lavoro nobilita l’uomo, in particolare nella sua accezione evangelica di servizio, e lo redime da una condizione vissuta come peccato perché così è vista da chi giudica senza sapere. L’acqua che gocciola dalle stoviglie appena lavate sembra benedire i frutti del lavoro quotidiano; quella del mare che separa le isole Tremiti vuole in realtà congiungere, colmare vuoti. Lo si comprende nel finale, con Martina, il cui dolore è inequivocabilmente guarito dall’incontro con Ivan, che si immerge tra le onde per vedere meglio, per estendere la visione nelle profondità del suo animo. Ed ecco la suggestione finale: che lo sguardo su uno schermo ridotto entri in rapida sintonia con le fragilità dei personaggi, empatizzi più da vicino con loro riducendo la distanza dai loro silenzi, mentre in sala lo spazio sullo schermo viene condiviso e parte di questa intimità si dissolve irrimediabilmente.