La vita è sogno?
Quando ci piace definire shakespearianamente il cinema “della stessa sostanza dei sogni”, qualche volta fingiamo di dimenticarci la natura ambivalente della dimensione onirica: il lato oscuro della luna, l’incubo mostruoso seduto sul nostro petto, grumo inestricabile di rimorsi, rimpianti, desideri, fallimenti.
Di questa materia – fumo denso, inebriante e perturbante – è fatto Mulholland Drive, capolavoro lynchiano già per genesi frutto di un deragliamento, quello da pilot televisivo rifiutato a caposaldo cinematografico. Architettura disegnata sulla vertigine geometrica della spirale, la pellicola insiste nel suo titolo, si fonde con la strada hollywoodiana che si srotola lungo le colline della California allo stesso modo di un nastro di Möbius o di una costruzione escheriana. Strada perduta, ritrovata, perduta di nuovo, sintesi possibile di una verità spogliata di logica, di una (effimera) comprensione puntualmente disillusa. E se l’impulso primordiale può essere quello del rigetto (“non si capisce niente!”, “non ha senso!”) è perché il sublime distillato da Lynch esonda piuttosto in un debordare di significati.
Il “non senso” è, in realtà, eccesso di senso, molteplice stratificazione di interpretazioni possibili, esagerazione di livelli di lettura. In apparenza del tutto scollegati dalle consuete e rassicuranti strutture di racconto (che effettivamente ci sono eccome, soprattutto nella prima parte, macrostoria mistery incastonata tra microstorie che sono ognuna un esemplare saggio narrativo di genere), al punto che ogni singola immagine pulsa di significato anche sola, isolata, cristallizzata. Di cosa parla Mulholland Drive? Dei sogni, di Hollywood, del cinema. Di amore, terrore, desiderio. Dell’identità. Delle insondabili profondità dell’anima. Tutto messo in scena attraverso frammenti di cinema sfuggiti per sempre alla loro primitiva origine testuale e consegnati a un immaginario collettivo trasversale ed extra(oltre)cinematografico. Tutto annodato insieme con la consequenzialità irragionevole dell’inconscio, così che all’incoscio, prima che a tutto il resto, sia dato capire. Anche se il mistero, lo sappiamo, si dice a noi platealmente dentro un teatro di velluto rosso, con la voce di un corifeo che ripete, testardo, “non c’è nessuna orchestra”. Non c’è nessuna orchestra, lo volete capire? E noi, altrettanto testardamente, ci caschiamo ancora, e ancora, e ancora, guance dita e pensieri fradici di lacrime. Setacciamo brandelli di indizi per ricomporre il puzzle – li leggiamo sulla targhetta col nome di una cameriera, in un libretto misterioso stipato di numeri e indirizzi, sui vetri frantumati di una limousine nera, nei trilli di un telefono che squilla a vuoto – e per un istante più o meno fuggevole ci sembra che tutto torni. Poi giriamo la chiave e veniamo risucchiati nella luce di un (ir)razionale risveglio. O viceversa. Ancora, e ancora, e ancora. Quel che ci dice Mulholland Drive è che non cesseremo mai di ripercorrere la strada in collina, scoprendola ogni volta imprevedibile e familiare. O di tuffarci di testa dentro un cubo blu elettrico, o di esplorare una lost highway senza via d’uscita. O di tentare di comprendere e comprenderci – rompicapo impossibile, costellato di illusioni, votato al fallimento. Sfuggiremo sempre a noi stessi e continueremo a rincorrerci su un viale del tramonto che si confonde col silenzio.
Mulholland Drive [Mulholland Dr., USA/Francia 2001] REGIA David Lynch.
CAST Naomi Watts, Laura Harring, Justin Theroux, Ann Miller, Robert Forster, Lee Grant, Monty Montgomery, Lori Heuring.
SCENEGGIATURA David Lynch. FOTOGRAFIA Peter Deming. MUSICHE Angelo Badalamenti.
Thriller/drammatico/sperimentale, durata 146 minuti.