Sempre in mezzo a noi
Il conformista è per Bernardo Bertolucci una tappa decisiva verso la maturità artistica, la consapevolezza stilistica e la fama internazionale, elementi che sarebbero stati confermati e migliorati con i suoi due capolavori successivi (Ultimo tango a Parigi e soprattutto l’epico Novecento, probabilmente il punto più alto di tutto il suo percorso).
La narrazione, le tematiche e lo stile del regista emiliano acquisiscono con questo film un respiro e una valenza sempre più vaste e globali, pur senza rinunciare a tematiche genuinamente “italiane” ricorrenti in molti suoi lavori, prima fra tutte l’ambientazione fascista e la rappresentazione degli oppositori al regime e il privato influenzato dal “pubblico” della nostra storia recente.
Basandosi sul romanzo omonimo di Alberto Moravia, Bertolucci mette in scena un personaggio universale le cui coordinate possono essere adattate a qualsiasi contesto politico/sociale e periodo storico, contemporaneità compresa, e che infatti ha parentele con protagonisti di film diversissimi e lontanissimi (per esempio L’uomo che non c’era dei Coen, o Collateral di Mann): l’uomo qualunque nel senso peggiore e più deleterio del termine, per il quale termini come conformismo, quotidianità, normalità sono parole vuote che nascondono meschinità e vigliaccheria, e la loro base di assoluta banalità. L’aspirazione del protagonista, impersonato da un Jean Louis Trintignant perfetto, è sembrare ed essere normale, come confida ad inizio film al suo amico cieco, quando gli rivela di volere il matrimonio per potere mimetizzarsi con gli altri. Per ottenere questo obiettivo, è disposto a venir meno al proprio talento, alla propria intelligenza, ai propri ideali (per esempio il rapporto con la fede e la religione, dalla scena della confessione fino al finale in cui insegna l’Ave Maria alla figlioletta) e anche alla consapevolezza, sempre più o meno evidentemente presente e sempre più combattuta, di andare verso il baratro della meschinità e della vuota banalità. La mediocrità come massima aspirazione di vita, l’ipocrisia e la falsità come irrinunciabili contorni per assaporire il tranquillo nulla a cui mira. Bertolucci ambienta questa “educazione sentimentale” nell’orizzonte piccolo borghese cattolico che ha sempre contestato e nello sfondo della dittatura fascista, senza venir meno alla passione e al furore ideologico che lo ha sempre contraddistinto; questo però non toglie il carattere di universalità al personaggio. È limitativo ridurlo al contesto del ventennio, così come legarlo, semplicisticamente, alla formazione e al sostegno di una generica dittatura: è una figura, un simbolo, eterno, che si mimetizza in ogni ambiente storico/politico, democrazia compresa. È la massa grigia che caratterizza ogni momento della nostra storia, che fa sì che le storture di ogni sistema siano sostenute e non vengano combattute. A fare da cornice un sagace uso geometrico degli spazi e degli ambienti, una ricerca sulla fotografia e sui colori, la prevalenza di campi lunghi e della profondità di campo, e di piani sequenza sostenuti da lievi movimenti di macchina. Il risultato è un’immediata bellezza formale assoluta, pregio, ma anche unico limite del film: infatti, se su Il conformista si può discutere se sia un capolavoro o “solo” un ottimo film è proprio perché qua e là dà l’impressione di un eccessivo estetismo e di una troppo esposta ricerca formale.
Il conformista [Italia/Francia/Germania Ovest 1970] REGIA Bernardo Bertolucci.
CAST Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Gastone Moschin, Enzo Tarascio, Dominique Sanda, José Quaglio, Fosco Giachetti, Pierre Clémenti.
SCENEGGIATURA Bernardo Bertolucci (dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia). FOTOGRAFIA Vittorio Storaro. MUSICHE Georges Delerue.
Drammatico, durata 111 minuti.