E’ di scena la realtà
Il popolo oppresso e sempre più povero che paga tributi ad uno Stato dedito a sprechi ed eccessi degni di un campionato di burlesque. Sembra la sintesi dell’Italia berlusconiana ma, in realtà, è l’inizio di Hunger games, ennesimo blockbuster americano figlio dell’ennesimo fenomeno “young adult” nato dalla mente dell’ennesima scrittrice anglofona, Suzanne Collins.
Il regista Gary Ross (Pleasantville) attraverso una regia volutamente sporca e nervosa ci introduce inizialmente dentro un mondo post-rivoluzionario nel quale i dodici distretti ribelli sono costretti, da 74 anni, a scegliere ogni anno un ragazzo e una ragazza da inviare a Capitol City, sede del governo centrale e teatro del reality più cruento della storia. Obiettivo degli “Hunger games”, però, non è solo l’eliminazione sistematica dei concorrenti e la vittoria finale di uno solo di loro ma, soprattutto, la creazione di un gigantesco spettacolo mediatico e sponsorizzato trasmesso 24 ore su 24.
Lo spunto è interessante. La società dello spettacolo che si ripiega su se stessa fino a gioire della morte di un loro (dis)simile, nella quale anche le vittime sono costrette a recitare affinché il pubblico si affezioni alla loro tragedia.
Molti gli indizi piazzati qua e là a favore dello spettatore accorto, a partire dal nome della regione che ospita i giochi: Panem.
Molte le suggestioni: dall’ovvio rimando al mito di Minosse fino al Petri de La decima vittima, anch’esso tratto da un romanzo statunitense.
Pochi, al contrario, i momenti gradevoli. Se si può sorvolare sulla prevedibilità delle azioni e delle reazioni dei personaggi, sulla scelta di inserire Lenny Kravitz nel cast, sul fatto che, in un gioco al massacro di tutti contro tutti, alcuni dei partecipanti decidano di allearsi, sul fatto che non venga spiegato come sia possibile creare animali semplicemente spostando un ologramma sopra un tablet e che una bambina di dodici anni sia più resistente di un atleta di venti, non si può assolutamente accettare una sceneggiatura che si prenda gioco del pubblico. A metà film una voce annuncia ai concorrenti l’introduzione di una nuova regola: potranno vincere anche due concorrenti, basta che appartengano allo stesso distretto. Non sveliamo il finale, diciamo solamente che nell’arco dei venti minuti successivi le regole cambieranno altre due volte.
Come fa il pubblico ad affezionarsi alla sorte di un personaggio se le sue azioni vengono ogni volta vanificate dall’umore ballerino di un Grande Fratello/Regista/Demiurgo che sia?
In Italia siamo stanchi dei reality fintamente veri; in America, evidentemente, no.