Divergenti – Festival Internazionale di Cinema Trans, Bologna, 4-6 maggio 2012
La storia che ora c’è
Divergenti, il festival di cinema prodotto dal MIT – Movimento Identità Transessuale, giunge quest’anno alla sua quinta edizione e propone, presso la Cineteca di Bologna, la visione di film a tematica trans già diffusi nel mondo, ma che con difficoltà riescono a trovare un posto nei circuiti cinematografici mainstream.
Unico in Italia e terzo in Europa insieme ad Amsterdam e Londra su questo specifico tema, il festival, oltre a riportare dentro la sala cinematografica la dimensione di scambio, di aggregazione e di dibattito sul film che “diverge” dall’idea odierna di multisala, ha come obiettivo quello di restituire un’immagine non stereotipata e autentica sulla questione delle identità di genere riprendendo la parola tramite il mezzo filmico, per raccontare e ricostruire storie ancora non dette e per mettere insieme i pezzi di un mosaico ancora in composizione. Proprio grazie alla diversità delle storie e dei percorsi variegati, narrati spesso senza filtri e senza censure (come nel caso di Lovely Man, film in cui una prostituta è richiamata nel ruolo di padre dalla figlia in cerca delle sue tracce) la tematica viene affrontata mettendo in luce varie sfaccettature della stessa esperienza, senza scadere nell’autocelebrazione fine a se stessa o nel vittimismo autocommiserativo, ma giocando coi generi come nel caso di Madame X, film parodia che ha come protagonista una supereroina dragqueen proveniente dall’Indonesia. Per quanto il cinema di genere cerchi di confrontarsi con nuove soluzioni narrative, resta predominante l’esigenza di testimonianza che trova nel documentario e nella ricostruzione biografica la strada maestra. Ben cinque i documentari in programma, tra cui Orchids, my intersex adventure, film premiato dal pubblico e prodotto in Australia nel 2010, che tratta in modo autobiografico la condizione degli ermafroditi, tema tanto più esplorato all’estero quanto ignorato in Italia.
Proprio a causa della mancanza di dibattito nel nostro Paese, l’esigenza di testimonianza diventa duplice. Da un lato la necessità di rappresentare le icone dell’esperienza transessuale – figure di illustri sconosciuti che portano la loro vita a testimonianza, come nel caso di Russulella, film documentario su uno degli ultimi femminielli napoletani ripreso nella quotidianità e nella normalità della sua vecchiaia e chiamato dalla telecamera a rievocare lontani ricordi – dall’altro la necessità di interrogare la storia “ufficiale” e di ridare voce a ciò che è stato oculatamente occultato. A tale proposito, il documentario di Ottavio Mai e Giovanni Minerba, già direttore del Torino GLBT filmfestival, sembra calzare a pennello. Il “fico” del regime è un documentario del 1991, ma che la direttrice Porpora Marcasciano e la curatrice artistica Luki Massa ripropongono per la morte della protagonista avvenuta lo scorso anno.
Protagonista de Il “fico” del regime è per l’appunto Giò Stajano, ovvero il nipote transessuale del “cretino obbediente” Achille Starace, gerarca fascista. Il documentario mostra prima alcuni filmati d’epoca di Mussolini durante un discorso al “virile” popolo pugliese, e poi inquadra i ruderi – anche simbolici – della casa del gerarca, su cui sfila – sulle note di faccetta nera – Maria Gioacchina Stajano Starace, erede unica delle proprietà del nonno. Nelle vesti di “splendida” padrona di casa, in tacco, trucco e parrucca bionda, la celebre trans racconta di una pipì scappata accidentalmente sul petto di Mussolini alla tenera età di un anno, mentre durante una manifestazione a Roma, veniva portata in braccio dal duce come esempio della nascente virilità della gioventù fascista. Il documentario investiga l’esperienza cinematografica della protagonista, aprendo vari flashback e mostrando lunghi spezzoni di film (tra questi La dolce vita, film in cui ha recitato e che, grazie a un bagno in Piazza di Spagna, ha ispirato Fellini per la celebre scena della fontana di Trevi) e si sofferma sul personaggio di Giò Stajano. Immortalata nella sua posa in abiti bianchi, sdraiata su un salotto di lusso nella Roma da bene, la sua figura emerge con tutte le contraddizioni che si tira dietro, per le sue origini, per le rivendicazioni politiche di cui prima si appropria indebitamente e poi rinnega, per la sua dissacrante ironia, per il coraggio delle sue scelte e la franchezza delle sue parole nel romanzo Roma capovolta, uscito nel 1959 e prontamente censurato. Minerba documenta alternando all’intervista, spezzoni di film, fumetti, filmati d’epoca e fotografie e per quanto il film risulti datato sia per le tecniche utilizzate (si tratta, tra l’altro, di un documentario autoprodotto), sia perché Giò Stajano, specie nella parabola finale della sua vita, ha continuato a far parlare di sé provocando scandali e perplessità, Il “fico” del regime resta un pezzo di storia d’Italia e un pezzo di storia del cinema. In Europa la riflessione sulle questioni di genere è in corso da anni e il cinema, per le sue potenzialità espressive, resta il mezzo prediletto con cui raccontare e rappresentare efficacemente storie non dette. In Italia da alcuni anni si sta cominciando a ri-raccontare la storia: restiamo in attesa di altre storie che, come quelle viste, appartengono a tutti.