We can be (super)heroes
“I Vendicatori. Ci facciamo chiamare così…” confessa un Iron Man un po’ imbarazzato. Loki (Tom Hiddleston), l’infido Dio della menzogna, ha sferrato il suo attacco alla Terra e per tutta risposta lo S.H.I.E.L.D. di Nick Fury (Samuel L. Jackson) ha assembrato una squadra davvero eccezionale.
Annunciato fin dal 2005 da Paramount e Marvel Studios, pregustato a suon di feticci disseminati nei film precedenti, The Avengers ha superato ben più di un’ aspettativa quasi decennale. Accanto alla sfida della sintesi tra i beniamini Marvel già apparsi in sala, il crossover firmato Joss Whedon ha accolto anche quella, altrettanto insidiosa, di fare il punto sul loro revival. La mole del materiale adattabile al grande schermo – peraltro già predisposto a uno sfruttamento di tipo seriale – non basta a spiegare il recente successo del cinema tratto da fumetti. Il vantaggio di investire in blockbuster ad alto potenziale attrattivo e di formule produttive ricorrenti si scontra con il rischio di offrire al pubblico un immaginario non proprio attuale.
In che modo il supereroe Marvel, tipicamente aitante e forzuto si è fatto posto nel mondo mutevole degli eroi elastici e cerebrali inaugurati dal Neo di Matrix?
L’attualità del supereroe è appunto il dilemma di Captain America (Chris Evans) che, ibernato per 70 anni e rivestito di nazionalismo, è il simbolo più eclatante dell’obsolescenza. La forza del film sta nel confinare al suo personaggio il disagio dello scarto generazionale, insistendo nel confronto ironico con il restyling degli altri membri. Definito più volte “vintage” per non dire démodé, il povero Steve Rogers si trova a far fronte a compagni con ben altro appeal: se Iron Man (Robert Downey Jr.) si riconosce in “un miliardario playboy filantropo”, è soprattutto alla sua verve comica e all’apparato ultratecnologico che deve il suo indice di gradimento; Thor (Chris Hemsworth) è più epico che superato – e il linguaggio altisonante è stato già fonte di ilarità – mentre la sovietica Vedova Nera (Scarlett Johansson) ha dalla sua un’avvenenza immortale. Che dire di Hulk (Mark Ruffalo) e di Occhio di Falco (Jeremy Renner)? Se quest’ultimo, in versione Ultimate, unisce alla tecnologia il fascino medievale dell’arco, perfettamente in linea con la riscoperta estetica fantasy di probabile influenza world-of-warcraftiana (più che al Legolas citato nel film si pensi al “balestrato” Daryl di The Walking Dead), il primo esprime al meglio la schizofrenia dell’eroe contemporaneo, intrappolato tra una vita da nerd e la repressione di una rabbia esplosiva. Arruolato per le sue doti intellettuali, deve alla forza cieca del suo mostruoso alter ego la risoluzione del conflitto finale.
Ad accrescere il coinvolgimento è inoltre la collaudata retorica di squadra. Quello degli Avengers è un team a tutti gli effetti, con tanto di attriti, sconfitte e discorso del coach ma al contempo le scelte individuali si rivelano indispensabili, e a fare da motore, più che gli ideali astratti, sono motivazioni e ferite personali.
Whedon si destreggia da esperto del settore, usando il dettaglio come una promessa, con oggetti- feticcio che anticipano i “super”, e imbastendo godibili scene d’azione che li comprendono senza mischiarli. Non manca l’omaggio alla figura del fan, affidato a Phil Coulson (Clark Gregg) e alle sue figurine. È in suo onore che l’improbabile unità di/in crisi alla fine funziona. In virtù di chi ci crede si può (ancora) essere eroi.
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