Siamo una squadra fortissimi, ma non troppo
Se dovessimo sintetizzarla in una frase, la trama del film di Joss Whedon suonerebbe grosso modo così: un drappello di supereroi individualisti e anarcoidi, raggruppati forzatamente da un agente del governo che ha la vista lunga, deve salvare l’umanità, minacciata dalle manie dittatoriali di un cattivo capriccioso e in preda a frustrazioni adolescenziali.
Soffermarsi in prima battuta sul motivo centrale di un blockbuster che punterebbe per sua natura allo svago incondizionato e alla quiete intellettiva, non rende il giusto merito a uno dei cine-fumetti meglio congeniati dai tempi del primo Spider-man. L’arma vincente di The Avengers non sta infatti in una premessa insolita, che stuzzica lo spettatore ignaro e smanioso di novità. Gli universi superoistici, che siano o no di marca Marvel, sono ampiamente consolidati: anche chi è digiuno di fumetti e ignora le peripezie dei Vendicatori sa dove si trova e cosa lo attende, e la sua gratificazione prescinde da citazionismi e conoscenze pregresse. Dietro la maschera delle convenzioni, viene occultata una costruzione scrupolosa, che non lascia spazio a dispersioni e incongruità. Da un autore televisivo come Whedon ci si aspetta una narrazione di ampio respiro, tenuta saldamente in pugno sulla lunga durata, capace di orchestrare una coralità di caratteri antitetici e complementari. In tutto ciò il suo film è impeccabile, considerando anche il livello di potenziale entropia. Di fronte alla miscellanea dei personaggi, depositari di complessi di colpa e di velleità di redenzione che congiurano contro la comunione di intenti, il rischio era quello di perdersi, di ingolfare il motore di una macchina narrativa che invece perde raramente colpi, anche quando cede nel finale a un preventivato catastrofismo. Al di là della ricetta non si può però nascondere che già gli ingredienti siano di per sè invitanti. Nel tratteggiare i suoi supereroi Whedon innesta i principi aurei di scrittura per il cinema e la televisione sullo stile Marvel alla Stan Lee. La tendenza ad agire per proprio conto in nome di una politica personale un po’ narcisistica è frutto di ferite interiori, rese esplicite nelle mutazioni genetiche, che la necessità di far gruppo rende scoperte. I poteri nascono come malformazioni e, tornando al film di Sam Raimi, il discrimine sta nel loro utilizzo. Il personaggio chiave da un punto di vista drammaturgico è quello di Loki, fratello degenere – a rigor di logica i cattivi veri e propri sarebbero i mostruosi alieni, per nulla accattivanti, e non è un caso, poiché la prospettiva è tutta interna alla squadra di eroi. Calato letteralmente all’interno del gruppo, Loki attiva una catena di relazioni che ingabbia i nostri e li rende più vulnerabili, causando un inevitabile scontro, a volte più dialogato che fisico, tra poetiche contrapposte. Il più dichiarato è quello tra Capitan America, nostalgico soldato depositario dei valori tradizionali di Patria e Libertà, e Iron Man, miliardario pragmatico e disincantato, il cui conservatorismo reazionario è mitigato dalla performance gigiona, ma più controllata del solito, di Robert Downey Jr. Questi superuomini sono d’altra parte investiti di un destino più grande del nostro, di cui solo loro possono essere i legittimi portatori. L’atmosfera surreale di questo giocattolone che non si prende mai troppo sul serio ci libera in effetti da preoccupazioni empatiche alla Armageddon, dove il ruolo di salvatori della patria veniva demandato a uomini comuni fatti eroi – con incursione premeditata e impunita nelle sacche lacrimali dell’ignaro spettatore. Il tono scanzonato ci riporta così alle risate sincere e gustose di un bambino. Un buon motivo per rivedere un film che, anche in virtù di furbizie e trucchetti narrativi ben celati, lascia un retrogusto piacevole: non si comprende esattamente perché, ma ci si diverte. Eccome.