Il Male dentro
“Non dormivo più. Non mi lavavo più.” Le parole inghiottono l’aria e divorano l’anima di un essere umano disgustato della propria pelle, inebetito da un orrore autoprodotto e annientante.
La vita si guarda allo specchio. E si dissocia da se stessa. Lo fa con Clara che – incredula, disperata – ricerca una via di fuga da un dolore che dell’affettività ha fatto terreno di conquista. Ci prova con Eloise ma lei – irriverente e caustica – all’annullamento della sofferenza preferisce la derisione e (l’apparente) distacco. Fa centro con Rina, che usa la debolezza infantile per sterilizzare i vergognosi ricordi in una coltre di gesti dolci e candidi. Infine, si illude con Vincenza, che spera accanitamente e affida il proprio desiderio di espiazione a un salvifico al di là. Quattro vite per un unico cuore che sanguina. Donne diventate madri. Trasformatesi, poi, in assassine. Dei propri figli. Vite grandi che hanno cannibalizzato vite piccole nello schizofrenico intento di preservazione di uno spazio vitale percepito come usurpato; cortocircuiti di istinti primordiali in lotta spietata tra loro. Diventano, così, vite difficili da rappresentare. Perché pregne di sentimenti trattenuti e inconfessabili, sconosciuti anche a chi questi atti li ha perpetrati. La macchina da presa di Fabrizio Cattani cerca di raccontare l’intimità del rimosso solcando i volti delle sue moderne Medee in un inseguimento insistito delle loro emozioni facciali, costruendo uno zoom emotivo sugli sguardi in primo piano, interfacce privilegiate della sofferenza derivante da un soffocante senso di colpa. Ma se la discrezione investigativa dell’occhio meccanico del regista sfocia in una “tipizzazione” delle quattro protagoniste che, al netto delle forzature, risulta di utile riconoscibilità, essa impedisce, d’altra parte, un adeguato approfondimento psicologico del dramma che ognuna cova e alimenta dentro di sé. Nella cornice dai colori freddi e dalle labirintiche architetture dell’ospedale psichiatrico che accoglie le madri-killer, passato e presente si confondono secondo passaggi di sceneggiatura sbilanciati e incompiuti, che nulla aggiungono alla comprensione delle angosce sottostanti il “folle gesto”. Sprazzi di verità illuminano i dialoghi tra Clara ed Eloise (su tutti, i caratteri a più alto impatto identificativo, corpi e visi delle splendide Andrea Osvart e Monica Barladeanu) ma è nel confronto straziante con l’esterno, con chi è rimasto fuori, che la coscienza dell’ineluttabilità si fa vera, lancinante mestizia. Davanti al desiderio amorevole e conciliante dell’ex-padre dei suoi figli, (interpretato da Daniele Pecci, bravissimo), un uomo piegato nel fisico e nell’animo ma proiettato – nonostante l’indicibile – verso il perdono, il rifiuto di Clara si erge a testimonianza indiretta delle perversioni di un intero sistema sociale. In esso, gli esseri umani si riconoscono esclusivamente sulla base della categorizzazione dei ruoli loro assegnati: agli “inadempienti” – come le donne che rigettano lo status “naturale” di madri – si riserva il ghetto ideologico della mostruosa anormalità. Il film è tutto lì: in quel dialogo privilegiato tra due solitudini nate dalla distrazione, dall’incapacità all’ascolto figlia della frenesia lavorativa, e per le quali non può (ancora?) esistere un lieto fine. Al didascalismo eccessivo e stonato della vera conclusione del film, fa da contrappunto il senso di malessere esistenziale – di tonalità simile a quella degli struggenti stati blues sulla condizione di maternity – che le vite e i rapporti interrotti lasciano sempre dietro di sé. Decisamente poco per esorcizzare la ritrosia della trattazione tematica (tanto più nel caso di un paese cattolico come l’Italia) ma comunque già qualcosa, che riesce a farci dire di aver visto lo schermo riverberarsi di una luce nuova nel buio avvolgente della sala.