Soltanto il vento
La casa nel vento dei morti, titolo suggestivo per il secondo lungometraggio diretto da Francesco Campanini con soggetto di Luca Magri, anche attore nel ruolo principale. Peccato che il film risulti poco riuscito e mal recitato.
Nel 1947 quattro uomini decidono di rapinare un ufficio postale. Il colpo riesce anche se uno di loro viene ferito mortalmente mentre il resto del gruppo prosegue a piedi in una lunga fuga con l’obiettivo di giungere in Versilia. Ma il loro viaggio verrà interrotto nei pressi di un casolare isolato.
Ci sono almeno tre idee interessanti in questo film e la prima riguarda proprio il cinema. Infatti, Attilio, il personaggio principale, è un ex attore del cinema fascista che si può vantare di aver lavorato con Alessandro Blasetti, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti e aver partecipato ad alcuni film nella Venezia capitale del cinema durante Salò. Il suo passato da attore (fascista) lo perseguita in tutto il film e, in effetti, è il più vulnerabile dei tre rapinatori, quello che più facilmente può essere riconosciuto. A questo si lega la tematica storico-politica: la guerra è conclusa da poco ma ciò che è accaduto in Italia è ancora vivo nella mente di chi l’ha vissuto. Nazifascisti e collaborazionisti da un lato, partigiani e civili innocenti dall’altro, nel film sembra si vogliano ancora punire gli errori dei primi. Inoltre, l’elemento orrorifico del film è rappresentato da una famiglia, probabilmente cannibale, tutta al femminile la cui giustificazione è quella di aver reagito alla fame e alla miseria della guerra ammazzando chiunque capitasse loro a tiro. Ma, in fin dei conti, non fanno per niente paura quelle quattro contadine ignoranti impegnate nell’ennesima tortura ai malcapitati di turno. Di horror in questo film c’è davvero poco. La fuga dei tre risulta troppo lunga tant’è che a un certo punto la poca suspance che si era creata svanisce. Quella casa nel vento dei morti arriva troppo tardi per far sobbalzare lo spettatore dalla sedia e in quanto a suggestione (a parte il titolo) solo le inquadrature dell’ambiente riescono a presagire un indizio di pericolo, proprio come accadeva coi paesaggi australiani in Wolf Creek (2005) di Greg McLean. E come non pensare a La casa dalle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati da cui tra l’altro si riprende il finale sospeso. Soltanto il vento che fa sbattere le finestre del casolare e agitare le foglie degli alberi di questi paesaggi desolati fa rabbrividire, prefigurando non solo pericolo ma anche (apparentemente) qualcosa di soprannaturale.
Nel complesso La casa nel vento dei morti sembra non avere proprio scopo, eppure idee brillanti non mancano ma sono mal sviluppate e il risultato è mediocre. Il film non lascia nulla a chi lo vede.