Donne
“Film che producono film. Donne senza macchina da presa” chiude le scene portando a Bologna la cineasta milanese Alina Marazzi con la montatrice Ilaria Fraioli.
Riproporre la visione di Vogliamo anche le rose, film uscito nel 2007, in seno alla manifestazione sul cinema found footage è una scelta quanto mai calzante dato il rapporto che il film intrattiene col materiale d’archivio.
Prevalentemente girato a partire da materiale preesistente, il film è nei fatti una riscrittura di un particolare periodo storico, gli anni Settanta, tramite il racconto dei diari di tre ragazze (tratti dall’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano), che vivono in modo diverso la sessualità e che, con modalità diverse, attraversano gli anni del femminismo. Nel rendere discorsivo il privato (un raccontare per raccontarsi, pratica autobiografica connotata del genere donna) Alina Marazzi interroga la storia scegliendo il dialogo diretto con le fonti d’archivio. La sua re-visione è un riportare quel presente nell’attuale presente (non è un caso infatti che il film sia uscito nel trentennale del fatidico ’77) ma sceglie – e lo fa volutamente – di dialogare con un materiale diverso dall’intervista-verità e dalle immagini di strade, cortei, manifestazioni, che hanno consolidato l’immaginario visivo di quel decennio. L’autrice privilegia così la rappresentazione di interni, case, luoghi di incontro e per farlo si serve di molteplici fonti, diversificando la pratica attuata in Un’ora sola ti vorrei, in cui il materiale era interamente tratto da film di famiglia.
Nel caso di Vogliamo anche le rose invece l’incontro col materiale d’archivio è totalizzante, addirittura filologico. Le foto (consistente l’apporto delle fotografie di repertorio di Paola Agosti), i fumetti e i volantini sono tutti degli anni Settanta e sono stati rielaborati con una precisa modalità: se da un lato si vogliono “riscrivere” e raccontare gli anni Settanta, Marazzi e Fraioli lo vogliono fare in forma dialogica con le fonti, nel rispetto del loro spirito e senza estrapolarle dal loro contesto. Così, se l’uso arbitrario di una semplice inquadratura avrebbe modificato il senso iniziale, la linea del tempo viene pedissequamente seguita, per catturare il senso visivo dell’attimo e per mantenere il criterio estetico, la “grammatica visiva” di quegli anni, valorizzando dunque il documento nella sua autenticità. Oltre ai dibattiti televisivi e alle musiche d’epoca, l’immaginario visivo viene arricchito anche da cineasti di allora quali Mario Masini, Alfredo Leonardi e Alberto Grifi. Di quest’ultimo è la ripresa della carica della polizia su una manifestante a Campo de’ Fiori del 1972. La scena, rallentata e privata di sonoro, viene portata da Marazzi e Fraioli su un terreno più intimo, traducendo con una “politica dell’intimo” l’atto politico di Grifi di partecipare da attivista ad un corteo e di filmare la violenza in presa diretta.
Ma è soprattutto con la produzione di Adriana Monti che Alina Marazzi intrattiene un dialogo più diretto. Attingendo da filmati in super 8 (Il filo del desiderio, Il piacere del testo, Ciclo continuo, Bagagli), la regista porta a termine a distanza di trent’anni il lavoro che Adriana Monti non ha potuto realizzare per questioni tecniche. Un esempio, in altre parole, di film che producono film: la sequenza pensata da Monti in Ciclo continuo (un taglio di capelli nelle sue diverse fasi) viene rielaborato in Vogliamo anche le rose in split screen e dà il volto a Valentina, la ragazza del terzo diario. Autoeleggendosi erede del pensiero visivo e filmico della vecchia generazione di donne, Alina Marazzi riapre un dialogo sui temi dell’emancipazione, della parità e della sessualità (il finale con la cronologia delle battaglie vinte, e costantemente messe in discussione, sigla il nesso con l’attuale presente) e fa del montaggio uno strumento di ricerca creativa: una scrittura visiva in grado di dialogare con la memoria e di darsi a memoria delle future generazioni.