Stanchezza
A volte, davanti a certe (si badi, non a tutte) ultime fatiche di autori che ami e che hanno ampiamente contribuito a formare il tuo substrato cinefilo, per qualche momento ti penti di avere visto quasi tutte le loro opere, di conoscerli più o meno approfonditamente.
Così, come il resto degli spettatori nel cinema o come gli amici con cui ti confronti il giorno dopo, anche tu, invece di immalinconirti per il passo falso, avresti potuto accontentarti del minimo sindacale di risate garantite dal mestiere, trovare innovativo quello che non lo è e tornare a casa più che contento, come reduce dalla visione di un nuovo punto fermo della storia della commedia. Questo è quello che può accadere con un film come To Rome with love, tappa romana della tournée europea di Woody Allen, il quale torna nel Belpaese dopo la parte veneziana di Tutti dicono I love you e dopo avere spesso riecheggiato il nostro cinema in molte sue opere. Per definire To Rome with love non sarebbe corretto usare aggettivi come brutto o poco riuscito, perché non mancano sprazzi di genio qua e là e spunti interessanti che salvano da naufragio totale; sono più calzanti definizioni come stanco, fiacco o annoiato. To Rome with love è, appunto, un film stanco, che appare per nulla “sentito” e vissuto dal suo autore, trasmettendo queste spiacevoli sensazioni allo spettatore, perlomeno a quello un po’ più scafato. Questo non per salire sul carro del luogo comune di parte della critica e dei cinefili per cui, da 10-15 anni a questa parte, ogni nuovo lavoro del regista newyorkese è da stroncare a prescindere perché comunque non vale i capolavori della sua età dell’oro (anche perché Allen ha fatto ottimi film anche negli ultimi anni, così come scivoloni gli sono certamente successi anche negli anni Settanta e Ottanta); però, quest’ultima tappa romana è certamente tra le meno interessanti, le più anonime, le più malinconiche e le più dimenticabili della sua carriera. Tra stereotipi sull’Italia e gli italiani e stereotipi e luoghi comuni del suo cinema, nella cornice di una Roma ben fotografata da Darius Khondji soprattutto nel momento della giornata in cui i suoi colori e le sue luci rendono meglio (tardo pomeriggio, prima del tramonto) e che perciò riesce a trasmettere il suo splendore un po’ caciarone, dei quattro episodi il più riuscito è quello con protagonisti Alec Baldwin, Jesse Eisenberg ed Ellen Page: questo segmento è l’unico che, giocando con alcuni cliché soprattutto stilistici alleniani, riesce a renderli ancora attuali e interessanti, mostrandosi come una sorta di aggiornamento di Io e Annie nel personaggio di una brava Ellen Page e dI La dea dell’amore con il maturo architetto interpretato da Alec Baldwin al posto del coro della tragedia greca. Per il resto, se si escludono una manciata di battute e di scene testimoni di un genio che fa capolino, i momenti più belli sono quelli da cartolina in cui si mostrano le bellezze e le luci della città eterna; ma a questo punto, tanto vale risparmiare i soldi del biglietto del cinema e usarli per il biglietto del treno.
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