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Corti – Found footage

giovedì 19 Aprile, 2012 | di Lucia Occhipinti
Corti – Found footage
Festival
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Film che producono film. Donne senza macchina da presa, Bologna, 19-20 aprile 2012

Invisibili. Nella tradizione è questa la condizione delle donne nella società, nella cultura, nell’arte. Così, anche nel cinema. Doppiamente invisibili nel caso in cui il cinema in questione è quello sperimentale.

“Film che producono film. Donne senza macchina da presa”, la rassegna a cura di Monica Dall’Asta, porta sul grande schermo i corti delle migliori cineaste che hanno trovato uno spazio privilegiato nel cinema di montaggio. Il found footage, già appannaggio della cultura underground, nelle mani di queste artiste diventa a tutti gli effetti una pratica di resistenza alla cultura patriarcale, che imprigiona la donna nelle vesti di moglie, madre e amante. Sempre ritratta da qualcuno e mai libera di autodeterminarsi, il suo corpo diventa un surrogato del desiderio altrui. Tanti – per non dire troppi – i casi in questione, ma tra tutti spicca – per ovvi motivi – il porno. Ed è all’immaginario pornografico, ma non solo, che le cineaste si rivolgono e alla domanda – debeauvoiriana in tutta evidenza – se quella è una donna, rispondono smascherando l’immaginario maschilista che domina incontestato la scena dell’erotico. Tante le strade intraprese per decostruirlo: dall’ironia irriverente di Anita Thatcher in Permanent Wave del 1966 all’horror di Martha Colburn in Skelehellavision del 2002. Quest’ultima utilizza scarti di pellicole porno e tramite scratching ne rielabora i fotogrammi. Dietro la carne piacente, ecco che emergono le ossa dei corpi: uomini e donne, un popolo di scheletri, che portano dentro la morte. L’ erotismo di quelle donne succinte è un elemento totalmente disturbante nella rielaborazione di Colburn: sintomo che il desiderio del film porno altro non è che un desiderio morto. Sulla stessa scia si muove Naomi Uman, ma se in Skelehellavision le immagini delle donne (più che in carne, in ossa) erano accompagnate da colori dalle tinte espressionistiche, la regista di Removed, nel modificare le pellicole pornografiche, lascia inalterati i colori e le forme rimuovendo però la figura della donna da tutte le scene di seduzione. Cancellata – letteralmente – con candeggina o con smalto per unghie, della donna immaginata (e stereotipata) non si vede più nulla e così, con un’operazione sottile ma dal potenziale visivo non meno efficace dell’horror, chi guarda è costretto a indagare sul funzionamento del desiderio. Di Removed, tuttavia, colpisce soprattutto la capacità di far nascere degli interrogativi sulla questione dello sguardo: lo spettatore, infatti, osserva una coppia che, in un momento d’intimità, osserva voyeristicamente un’altra coppia mentre si esibisce sulla finestra della camera da letto. Quella di Removed diventa così non solo una denuncia dell’immaginario maschilista, ma anche una più estesa riflessione sulla funzione del cinema e del ruolo che ha il cinema nel costruire immaginari. Il metodo del found footage non è stato utilizzato solo per mettere in discussione il sessismo, ma anche l’eteronormatività che predomina: The Color of Love di Peggy Ahwesh rappresenta un mènage à trois che termina nella rappresentazione non censurata di un rapporto lesbico che, ovviamente, non ha l’intenzione di compiacere uno sguardo maschile in cerca di trasgressione. L’immagine è, al contrario, volutamente macchiata di sangue mestruale, il cui flusso predomina sullo schermo e offusca le figure e le immagini dei genitali femminili provocatoriamente ripresi in primo piano. La corporeità è un tema caro anche a Louise Bourque in Jours en fleurs, modo di dire canadese per indicare il periodo mestruale, che mostra alberi in fiori destinati alla decomposizione. Il tema del decadimento e della morte riguarda anche un altro corto della regista, Selfportrait Post Mortem, segno che col metodo found footage sono possibili varie sperimentazioni e ricerche. Tra queste spicca la produzione di Cécile Fontaine che in Corréspondance e Home Video, ricostruisce la propria infazia e il proprio passato familiare. Di queste cineaste sperimentali, notevoli non solo la varietà di stili e per il potenziale visivo delle immagini, colpisce soprattutto l’attualità delle produzioni: tutti i cortometraggi sono stati infatti prodotti tra gli anni ottanta e gli anni duemila. Segno ineludibile che la riflessione sul desiderio e sugli stereotipi di genere è tutt’altro che superata.

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