La migliore serie di sempre?
Lo spiacevole siparietto tra il giornalista di Libero Francesco Borgonovo e Carlo Freccero, che ha portato alla sospensione del direttore di Rai4 e alla cancellazione della discussa Fisica o Chimica, già bersaglio dell’associazione cattolica AIART, ha dato al pubblico italiano l’inaspettata opportunità di accostarsi a uno dei police procedural più interessanti degli ultimi anni.
Meglio ancora: basta dare un’occhiata al web e si scoprirà infatti che The Wire, cinque stagioni dal 2002 al 2008 per 60 puntate su HBO, è considerata da molti critici e appassionati quanto di meglio abbia offerto la serialità americana dalla nascita della televisione. Apprezzamenti simili, anche se condivisi dai più, postulano l’obbligo, per scongiurare l’iperbole, di alcune precisazioni. HBO, lo sappiamo, è sinonimo indiscusso di qualità, l’Olimpo delle serie televisive per lo straordinario livello di scrittura, le produzioni dispendiose e un linguaggio unico e audace. Se per gli spettatori più esigenti e smaliziati, alla ricerca di un universo alternativo ai grandi networks, l’emittente via cavo è stata fonte di contenuti e forme narrative originali, bisogna tuttavia ricordare che, anche per le sue strategie produttive, rivolte alla fidelizzazione di una nicchia di consumatori, parte dei titoli targati Home Box Office non hanno avuto un seguito significativo. Sarà superfluo rimarcarlo ma, soprattutto per le serie televisive, qualità e audience non sono due mondi paralleli. L’arbitraria assegnazione di una dispensabile palma del migliore non può non tenere conto della divergenza di obiettivi tra opere più impegnate (per le pretese critiche e il sostrato ideologico) e impegnative (per la discordanza rispetto agli standard di scrittura, l’articolazione delle argomentazioni e la natura intrinsecamente americana) da una parte e prodotti di immediato e rinnovabile impatto sul pubblico dall’altra, che però, mirando all’aggancio empatico dello spettatore, fondano comunque su un sapiente lavoro di sceneggiatura la loro retorica delle grandi emozioni. A chi scrive è sembrato quindi opportuno (lo confessiamo senza vergogna, anche per amore) giocare al ribasso per dare il “La” nel nostro piccolo a una scelta coraggiosa come quella di Freccero, che ha investito su una serie potente e allo stesso tempo ostica per il bacino di utenza, data la fascia oraria di trasmissione. Azzardata, e non così provocatoria come evidenziato da qualche internauta. Il direttore di Rai 4 scommette su un titolo in cui credeva alla pari di Fisica o Chimica e il movente della vendetta non regge: si passa dal sesso adolescenziale disinibito (per giunta omosessuale, cosa che fa inorridire più di una sventagliata di mitra!) alla violenza fisica e verbale, ma in quanto crime fiction The Wire rimane meno brutale di altri telefilm. Se vogliamo, è una questione di gratuità, e in questo senso mostrava già tutto il cinismo visivo-narrativo di Steven Bochco, fautore dell’emancipazione del tubo catodico in materia di serialità. Ma pensiamo ai giorni nostri. All’iperrealismo invasivo di CSI e ai sensazionalismi muscolari di The Shield, The Wire oppone un distacco calviniano, una distanza “affettiva” che garantisce all’indagine lucidità e ampiezza del campo visivo. La percezione di uno scenario disperato, di fronte a un umanesimo continuamente rinnegato e alla chiusura fatale degli orizzonti, non è solo figlia di un’ideologia pessimista e del retroterra autoriale. Ciò che conta è la scelta di un punto di vista estrinseco, che non è quello di un giudice spassionato (David Simon, ex giornalista, ed Ed Burns, ex detective e maestro di scuola, sono nativi della città protagonista della serie, Baltimora) ma di un demiurgo critico e amareggiato, che trama le fila di una storia inevitabile, scritta così bene perché già scritta nel destino dei personaggi. Ecco cosa ci turba della Baltimora di The Wire, che, per metonimia, è l’America del sogno, giunta ai titoli di coda: non il turpiloquio, quasi punteggiatura tarantiniana, non il sesso, per altro contenutissimo nelle prime stagioni, o i morti ammazzati, all’ordine del giorno nella città, e così in Tv. Rispetto agli esibizionismi urticanti di CSI, per altro estremamente consolatoria nel suo determinismo, esaltando una scienza dalle facoltà divinatorie, la filosofia tragica che sottostà al romanzo televisivo in cinque capitoli di Simon e Burns, coniugata a uno stringente mimetismo in cui la realtà innerva letteralmente la finzione (molti attori non professionisti, ex poliziotti o ex criminali, vengono dalle strade di Baltimora), lo rende ancor più seducente e scostante. Il filo autoptico delle intercettazioni, che dà il titolo alla serie, scandaglia una realtà gravata dall’immobilismo istituzionale, da una burocrazia imperante che mira alla conservazione dell’ordine e frustra la giustizia: i colpevoli sono sotto gli occhi di tutti ma la fanno spesso franca; quando poi non li colpisce il martello del tribunale lo fa la legge della strada. The Wire però va ancora oltre. La legge (il detective McNulty, un bianco in un mondo di neri, l’amico grassoccio Bunk Moreland, la poliziotta Kima Greggs, divisa tra il lavoro e le ansie della compagna, il tenente Daniels, schiacciato dalle gerarchie) e il crimine (il boss del narcotraffico Avon Barksdale, il braccio destro Stringer Bell, lo sciagurato D’angelo, il cane sciolto Omar) sono due fronti intrecciati ma scissi al proprio interno, dove ognuno recita la sua parte e lotta coscientemente contro una sorte di cui non sembra colpevole. L’aurea eschilea, a ben vedere, allinea la serie ad altre del passato (quanti personaggi abbiamo incontrato alle prese con una ferita fatale insolubile?), ma l’eccezionale respiro drammatico e i preziosismi narrativi ne fanno un appuntamento irrinunciabile, particolarmente attraente in un periodo, ascolti alla mano, di generale crisi della serialità.
The Wire [id., USA 2002 – 2008] IDEATORI David Simon.
CAST Dominic West, Idris Elba, John Doman, Lawrence Jillard Jr., Wood Harris.
Crime Drama, durata 60 minuti (episodio), stagioni 1-5.