Apri gli occhi
Della notte tra il 21 e il 22 luglio 2011 sapevamo, fino all’altro ieri, solo la cornice. Un fuoricampo di urla, colpi e ombre. Il prima (l’assalto dei poliziotti alla scuola) e il dopo (l’infinita sequenza di barelle trascinate fuori, corpi grumi di sangue e lividi).
Ora, dopo la visione di Diaz di Daniele Vicari, sappiamo anche il durante. Perché di una vicenda che è stato forse il primo esempio di informazione partecipata esiste documentazione audiovisiva di tutto, ma non può esistere registrazione documentaria di ciò che accadde tra le mura della scuola Diaz Pascoli Pertini, né tantomeno delle torture perpetuate alla Caserma di Bolzaneto. Il primo nodo irrinunciabile del film di Vicari si scioglie qui, nell’includere nel campo del visibile ciò che non è mai stato visto, ma solo, per forza di cose, immaginato, raccontato, ricostruito nei pensieri e nelle carte giudiziarie. Si rimprovera al film di non spiegare a sufficienza il prima e il dopo, le ragioni della protesta e l’impunità dei colpevoli, la precisa volontà politica come mandante del massacro. Ma la prospettiva scelta da Vicari (e dal produttore Procacci, a tutti gli effetti co-autore della pellicola) è scarna, essenziale, immediata: mette in quadro una violenza talmente inaudita e imponderabile, già a prescindere decontestualizzata da suo stato di eccezionalità, per la quale motivazioni e spiegazioni si scoprono relitti fatui e vuoti. Mette in scena la verità con i mezzi propri del cinema, attraverso un film corale e frammentato, puntellato da immagini di repertorio e da una colonna sonora funzionalissima, montato su echi di cinema di genere, dalla fantascienza apocalittica all’horror più cupo e disperato. Un film “molto poco italiano”, se non fosse per qualche scenetta invariabilmente didascalica: per metà del tempo pestaggi, pestaggi, pestaggi, denti rotti, manganelli, ossa frantumate, schizzi e pozze di sangue, urla, gemiti, invocazioni (inascoltate) di pietà. Senza compiacimento splatter, anzi con un gelo impersonale e allo stesso tempo insostenibile. Per metà pellicola il film è sottotitolato, a tratteggiare la brulicante umanità accorsa a Genova per mostrare al mondo “un altro mondo possibile”. Diaz esplode e si frantuma come la bottiglia di vetro che si fa figura retorica ripetuta, a riavvolgere e rilasciare il tempo, a riassumere la tensione accumulata nei mesi prima di quella notte d’orrore e riprodotta ottimamente da Vicari per la prima mezz’ora di film. Si è detto da più parti che Diaz è necessario, ed è vero: il suo merito non (solo) è quello di portare alla luce qualcosa di nascosto (i fatti della Diaz e di Bolzaneto sono sotto gli occhi di chi vuole guardare; chi non vuole guardare, questo weekend ha preferito Act of Valor o Battleship, come dimostra il botteghino). La grandezza del film di Vicari (quantomeno, del suo tentativo) sta nella volontà di restituire al cinema la sua potenza espressiva, la sua forza di linguaggio. Di ricondurre all’interno del perimetro filmico di finzione fatti reali e colossali per alimentare la costruzione di un immaginario, per sguinzagliare un’immagine potente e ineludibile, per scagliarsi sullo spettatore inchiodandolo all’emotività, sì, ma anche alla consapevolezza. Per pretendere che si dica “Io ho visto”. Oltre i distinguo, i perché, i se e i ma. E a chi scrive piace pensare che il cinema italiano possa cominciare da qui (e da ACAB, contraltare involontario ma inevitabile) per tornare a dire di noi, del mondo, della Storia, per pretenderci vigili e coscienti. Ad occhi aperti.