Le voci dell’inchiesta, Pordenone 11-15 aprile 2012
Il film di tutti
“Un film nato dalle emozioni, che deve svegliare il popolo non solo italiano, ma mondiale, anzi, globale, per non far più avvenire azioni del genere attraverso un tacito consenso popolare”.
Questa è la motivazione che ha spinto Daniele Vicari a realizzare Diaz- Don’t clean up this blood, evento di chiusura del festival pordenonese “Le voci dell’inchiesta”.
Il regista parla con fervore e protezione nei confronti del proprio lavoro, difendendolo da tutte le accuse che gli sono state mosse e che, anche fuori dai cinema, vengono fomentate dai volantini di organizzazioni politiche, le quali forse, come spesso accade, non hanno ancora visto il film ma lo criticano a prescindere. Vicari viene accusato di non fare nomi, di aver realizzato un film troppo romanzato, in poche parole di non aver fatto un documentario, cosa che Diaz non è, sono le parole del giovane regista a rendere inutili queste polemiche; il suo film è nato per non “morire” tra due mesi, quando ci sarà la sentenza definitiva sui fatti di Genova che si sospetta archivierà il tutto, è stato costruito attraverso le vere testimonianze e i veri atti dei processi, fare nomi sarebbe stato superfluo, qui si deve raccontare una pagina della storia mondiale che non deve soffrire dell’incubo di Primo Levi: raccontare ma non essere creduti. Non un film politico, né di destra né di sinistra, ma un film che non vuole dare risposte e tuttavia pretende di scatenare nello spettatore un turbine di dubbi, sentimenti e domande che sono figlie della rabbia e della vergogna. Non dimentichiamoci che i fatti della Diaz e di Bolzaneto non sono esclusivamente italiani, anzi hanno coinvolto il mondo intero, la rabbia nasce da questo, dalla “figura” fatta da un paese che ancora non riesce a trovare i colpevoli di molte stragi o che, come in questo caso, quando li trova è impotente verso una loro condanna. Ma veniamo al film: il suo valore civile è espresso da Vicari attraverso una cronistoria che nel suo montaggio chirurgico e nella sua struttura ricorda le inchieste di stampo americano, è fuori luogo paragonarlo ai film politici alla Petri o Costa-Gavras come è stato scritto da alcuni critici, il suo scopo è di sintetizzare senza però generalizzare. Diaz non è un action-movie semmai è un horor, situazione in cui i protagonisti si ritrovano a vivere una violenza senza aspettarsela, come ha detto Alberto Crespi su cinematografo.it, un film in cui il critico non può esimersi dal non farsi trasportare dalle proprie emozioni. Nulla di quello che è stato raccontato sulla Diaz e Bolzaneto è e sarà mai esaustivo e definitivo, quello che mancava oltre alle ferite e ai segni interni delle violenze è la consapevolezza cinematografica che gli abusi da soli non bastano ad indignarsi. Quello che deve sgomentare e in cui il film di Vicari riesce straordinariamente nel suo disperato compito, è raccontare la violenza cieca e il consenso popolare, di chi in quei giorni forse non ha capito o ha travisato. La coscienza di molti, di voler raccontare la forza di questa storia, in primis gli attori che non hanno fatto promozione al film in modo tradizionale, è un dovere civile. Nel ricordare che Diaz racconta una delle azioni contro l’umanità come ce ne sono e ce ne saranno ancora tante, Vicari chiede che i cittadini pretendano dalla politica, o da chi per lei, che queste cose non siano più permesse. E’ un nostro diritto, ma soprattutto un nostro dovere per non essere costretti più a vedere ancora sangue, ancora morti, ancora incubi. Alla fine il film pone tante domande e poche risposte; indimenticabili le immagini dell’uscita dal carcere dei detenuti di Bolzaneto, che dopo giorni di torture, nascondono le proprie ferite ai propri cari: il cinema ha ancora una potenza e una carica emotiva più forte di qualunque altro media.