Documentare gli alieni
Che nel cinema americano contemporaneo ci sia un cambio nel genere di riferimento per la produzione, è cosa abbastanza nota (la fantascienza si sta appropriando del ruolo di leader che nel primo decennio del duemila era stato occupato dall’horror), ed è ancora più evidente la rivoluzione digitale sta trasformando la produzione cinematografica mondiale.
Monsters, in questo senso, diviene il più tipico degli esempi, ma allo stesso tempo è anche rappresentante di una nuova eccezione produttiva ed estetica.
Nelle intenzioni, Monsters, non si discosta molto dall’ottimo District 9, che usa il genere in chiave fortemente politica; il film di Gareth Edwards mostra, con la classica inversione di prospettiva, il problema del confine statunitense e messicano, luogo di enormi tensioni politiche e sociali nella realtà, che in Monsters diviene la zona della caduta di un satellite NASA che, contenente materiale alieno, ha portato alla proliferazione di creature extraterrestri.
La presenza delle creature in realtà è quasi sempre sublimata, richiamata solo da cartelli che avvisano la popolazione del pericolo o dalla sostanziale situazione di guerra in cui i Paesi versano; i mostri divengono così solo un pretesto per iperbolizzare le tensioni del confine (la grande muraglia di cemento che divide gli Stati Uniti dalla zona infetta) e allo stesso tempo per mettere in scena l’aggressività statunitense nei confronti dell’alieno (non solo extraterrestre).
Monsters usa un approccio esteticamente nuovo a una materia abusata come l'”extraterrestre” grazie alle riprese in digitale che, sulla scia di District 9, cercano d’infondere maggior realismo alle immagini, seppur in modi diversi: il film di Blomkamp adotta uno stile “sporco”, come se tutto ciò che vediamo fosse colto di nascosto o sul momento, Edwards al contrario usa un tono più ordinato dal sapore documentaristico. Il documentario è, paradossalmente, molto vicino a Monsters, la sua produzione svela una leggerezza e dinamicità lontane dal mondo della fiction, non pensiamo solamente alla troupe di sole sette persone o al budget di appena mezzo milione (chiaro uno sproposito per un documentario ma nulla per un film di fantascienza) ma soprattutto al modo in cui è stato realizzato: l’apparente assenza di una vera sceneggiatura, i dialoghi improvvisati dai due attori protagonisti – scelti non a caso ma perché coppia anche fuori dal set – che danno maggior veridicità al sentimento che nasce tra loro, e una successione delle riprese che segue il viaggio che i due protagonisti compiono per arrivare negli Stati Uniti.
I riferimenti di partenza sono molto evidenti (tra i tanti Lost in Traslation e Jurassick Park) e la struttura narrativa è comunque ben riconoscibile nella sua classica tripartizione, ciò che è meno riconoscibile sono l’identità produttiva ed estetica, ma del resto se il cinema vuole rimanere media di rappresentazione della società dovrà per forza di cose sempre più ibridare linguaggi nuovi e vecchi.