Kobe got game
È noto l’interesse di Spike Lee per il mezzo televisivo, luogo per lui di esperimenti e ricerche che fondino la narrazione cinematografica con gli stilemi della televisione (4 Little Girls, When the Leeves Broke: A Requiem in Four Acts).
Risaputa è anche la sua passione per il basket. Tifoso dei Knicks e autore di un libro sull’argomento (Best Seat in the House – A Basketball Memoir), il cineasta ne ha sottolineato il lato estetico-visivo negli spot Nike degli anni Ottanta con Michael Jordan, ma anche la concezione di tale sport come metafora di vita, fatto di scelte necessarie, rapide e a volte dolorose, che possono condizionare il risultato finale (He Got Game). Con Kobe Doin’ Work, realizzato per la ESPN, Lee gioca in casa. Seguendo la scia di Zidane – Un ritratto del 21° secolo, il regista sposta l’obiettivo dal campo madrileno al parquet di Los Angeles, scegliendo di “marcare” Kobe Bryant, il miglior giocatore NBA degli ultimi anni, in una delle partite più importanti della sua carriera: quella contro i Spurs per la finale del torneo della Western Conference e per il titolo Most Versatile Player 2007/2008. Il film segue l’atleta prima, durante e dopo la partita che, ripresa da trenta videocamere e accompagnata da un commento a posteriori del giocatore, non resta un semplice documentario sportivo, ma diventa una sorta di lezione di pallacanestro. Bryant è infatti precisissimo nello spiegare le tecniche e le azioni che prendono piede sullo schermo, senza escludere – con eccessivi tecnicismi – lo spettatore meno avvezzo, guidandolo anzi passo passo con l’evolversi del match. La regia e il montaggio (affidato all’inseparabile Barry Alexander Brown) fanno il resto. Al ritmo forsennato della partita, le inquadrature si susseguono senza mai perdere di vista il soggetto principale, registrando ogni suo minimo gesto in campo, dagli sfottò alle espressioni di esultanza, dai tatticismi suggeriti ai compagni alle rapide acrobazie di gioco. Lee evita la retorica e il sentimentalismo, offrendo un ritratto asciutto e distaccato di Bryant, legato a quel modello di blackness di cui il regista si è fatto da sempre portatore: un nero consapevole del proprio passato, ma anche del suo ruolo nella società contemporanea, capace, attraverso il suo impegno e professionalità, di superarne i limiti sociali e culturali nel rispetto della propria e altrui diversità. Forse una strizzata d’occhio al “modello Obama”? Spike did the right thing.
Kobe Doin’ Work [id., USA 2009] REGIA Spike Lee.
SOGGETTO Spike Lee. FOTOGRAFIA Matthew Libatique. MUSICHE Marvin R. Morris.
Documentario, durata 83 minuti.