filmforum, Udine-Gorizia 20-29 marzo 2012
Saved Footage
I video di Youtube “flaggati” per il loro contenuto eversivo sopravvivono in media, dalla segnalazione degli internauti alla definitiva cancellazione da parte dei gestori del sito, non più di 12 ore.
Questi istanti, attimi sfuggenti rispetto al nugolo di informazioni accolte dal web, costituiscono per Dominic Gagnon un interstizio da esplorare con la prontezza del detective che sa di dover affrontare un’impari lotta contro il tempo, finalizzata al recupero di un campionario umano dal destino segnato. L’artista originario del Quebec, performer e filmmaker pluripremiato in Europa e oltreoceano (i suoi video sono stati proiettati alla Transmediale di Berlino, festival della cultura digitale contemporanea, e al Centre Pompidou di Parigi) propone in occasione del FilmForum Festival i frutti della sua ricerca, Rip in pieces America (2009) e Pieces and Love all to Hell (2011), panoramiche sulle ossessioni di cittadini comuni di fronte al fallimento del sogno americano, alla vigilia dell’ormai annunciata elezione di Barack Obama. Le loro performance davanti alla telecamera sono oggetto di un intervento archeologico che però non si limita al recupero e all’archiviazione. Gagnon rende giustizia alle vittime di una censura dal basso, indignados sui generis posseduti da un sincero spirito di revanchismo ma stonati nella loro altalena di frustrazioni e paranoie. Le confessioni pubbliche, gridate su internet, vengono riportate alla luce ed esibite allo spettatore della sala cinematografica, per il regista una sorta di “chiesa” che non comporta le distrazioni del tubo catodico e unisce platea e attori in un rito espiatorio collettivo. Gagnon nasce dal documentario di strada e, dopo circa dieci anni di sperimentazioni che hanno toccato anche altri linguaggi come la scultura e la musica, si è tuffato, pur con qualche incertezza rispetto a una dimensione spaziale e temporale fatta di accumuli e imitazioni, nel mare magnum della rete, dove ha trasferito estetica e metodi di lavoro. Il flusso del web si presta a una navigazione priva di punti di riferimento e indirizzata verso un risultato imprevisto. Se il punto da cui partire è indifferente, perché “non importano la piattaforma o il sito, ma quello che la gente ci mette”, l’obiettivo resta comunque quello di provocare, non creare un’emozione ma stimolare una reazione nell’audience, testimone di sfoghi personali che fotografano però uno stato di squilibrio e inquietudine in cui anche i più normali, e tra questi il regista stesso, si sentono coinvolti. “Non faccio film sulle persone, ma su persone che filmano se stesse”: a Gagnon interessa l’atto comunicativo, la triplice relazione tra attori, perché di attori si tratta, data la consapevolezza nell’uso della telecamera, spettatori e mezzo espressivo e di ricezione. La ricodificazione dei testi deve essere rispettosa delle intenzioni iniziali, pertanto l’unico intervento possibile è in fase di montaggio, attraverso tagli essenziali e l’alternanza delle singole prestazioni, mentre il voice over a commentare questa corrente potenzialmente infinita di volti è del tutto assente. Di questi volti Gagnon si serve come “collaboratori oggettivi”, qualcuno che lo aiuta senza saperlo nel dipingere un affresco delle nevrosi del nuovo millennio, su tutte le teorie complottistiche in cui sembrano affogare i protagonisti dei suoi film, collaboratori ignari che il regista vuole in ogni caso mettere a conoscenza del suo lavoro (molti di questi infatti sono stati contattati a montaggio ormai concluso). “Le persone collezionano materiale e cercano una forma, per poi portare tutto su un altro livello”: questa è l’essenza di un cinema di riciclo che però, nel caso di Gagnon, assume un particolare intento salvifico. L’autore conia infatti una nuova definizione per la sua arte: non più o non solo found footage, ma, in una parola, “saved footage”.