Una favola e niente più
Inizia come una favola l’ultimo lavoro di Luc Besson. Inizia con una domanda che una bambina rivolge al padre: “papà, mi racconti una storia?”, dice lei, mentre sullo schermo scorrono le immagini di una tigre, di un atavico paesaggio arboreo e di un palazzo dorato.
Sappiamo fin da subito che dalla favola passeremo presto alla Storia, poiché questa bambina altri non è che Aung San Suu Kyi, la più grande attivista per i diritti civili che la Birmania abbia mai avuto. È lei “The lady”, poiché questo è l’appellativo che i soldati del regime militare le hanno affibbiato, per nessun altro motivo se non la paura di evocarla col suo vero nome. Ma questo nel film non viene spiegato. Ci sono date importanti nella vita di Aung San Suu Kyi, così come nella storia del suo paese, e di queste date il film si ciba per aumentare il valore di realtà delle immagini: il golpe militare del 1946, nel quale perse la vita il padre di Aung, il generale Aung San; il massacro di Rancoon del 1988 ordinato dal generale Saw Maung, che Besson utilizza magnificamente per inserire, per la prima volta, la protagonista nel contesto politico birmano; le elezioni del 1990, vinte dal suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia e annullate dal regime. Fino a questo punto il film ha la capacità, non comune (vedi Invictus di Eastwood) di essere epico senza risultare agiografico, pur basandosi (come Invictus) sull’evidentissima somiglianza fra attore, in questo caso Michelle Yeoh, e personaggio. Qualcosa, nel meccanismo narrativo, si rompe arrivati al 1991, anno in cui ad Aung San viene conferito il Nobel per la pace. Aung San, costretta agli arresti domiciliari, utilizzerà i soldi per costruire un sistema educativo e sanitario nel suo paese. Ma questo nel film non viene spiegato. Il dramma di un popolo, arrivati a questo punto, si è irrimediabilmente trasformato nel dramma personale di una donna. La Birmania scompare così come scompare ogni traccia del manicheismo della prima parte, con i generali talmente cattivi e ignoranti da sembrare macchiette e lei così buona e dolce, presenza angelica e salvifica. I soldati diventano complici della sua prigionia, i generali spariscono o si limitano a poche battute di comodo. Viene allora da chiedersi: perché Besson ha voluto sprecare un’occasione così straordinaria per farsi voce della sua epoca? Il cinema deve raccontare e indagare, non può permettersi il lusso di utilizzare la Storia per fare cassa, non può e non deve fermarsi alla superficie delle cose. Lo ricordiamo a tutti quelli che hanno viso il terribile finale del film: la Birmania è ancora un regime militare.