Agire senza pensare
Perché fare un film biografico? Non esiste un genere (se genere si può definire) più presuntuoso, audace e irrisolto di quello che produce biografie di persone e non di personaggi; ma il fatto che esista, che esiga contemporaneamente di dare o disfare un esempio umano è indice di quanto ricordare le vite degli altri sia la più naturale delle pratiche narrative non autobiografiche.
Biografare ha un numero indefinibile di implicazioni: è proporre un personaggio “positivo” o “negativo”, oppure non celebrare né criticare ma studiare le ambiguità di un tempo storico, di una responsabilità (organizzativa, di comando, sportiva, ecc.) attraverso persone/maschere ancora più ambigue e difficilmente riconducibili a posizioni manichee; biografare è persino una questione politica, che a filmarla sia un regista militante come Giuliano Montaldo, o un regista d’azione come John Woo o un anacoreta come Robert Bresson, questo perché biografare è comunque compiere una scelta e una selezione che agisce sull’attualità come reazione, come proposta storica, come modello di azione collettiva o, al contrario, come effetto deterrente.
E poi c’è la cinebiografia in senso più immediato, il mezzo che pretende di immortalare il tempo dinamico di una vita “storica” per non farla dimenticare, ma che a sua volta è altrettanto fragile come una pellicola che si degrada o come un file che può essere rimosso senza copie; il mezzo che pretende di sostituirsi al diario autobiografico o al saggio storico per diventare il resoconto più partecipativo e divulgativo di una vita storica, ma per farlo deve trasformare la persona in personaggio, il tempo vissuto in découpage, l’esistenza in un romanzo inevitabilmente omissorio che cerca di interpretarla. Ma il cinema non è l’unico ad essere imputato di una pratica tanto arbitraria e mostruosamente onnipotente quanto culturalmente radicata e sentita, semmai è corresponsabile di un’iniziativa che può condividere con Omero, Eschilo. Ed è la stessa iniziativa senza cui non si sarebbe prodotto Amleto…
o The Lady, che complica la pratica biografica di un’altra variabile: fino a che punto un regista occidentale può filmare una personalità simbolica di una cultura tanto dissimile e non sovrapponibile alla sua? Considerare che questa personalità ha trascorso parte della vita in Inghilterra non risolve il quesito, anzi lo ingigantisce, soprattutto se il regista opta per un film sì fuori dal suo canone personale tradizionale ma comunque ragionato e stilizzato secondo linguaggi cinematografici distanti rispetto alla cultura di cui si occupa. A Luc Besson non interessa scrivere Il milione per cui alla scoperta di una geografia umana e politica complessa supplisce con una doppia esigenza: annullare i confini per rendere Aung San Suu Kyi un’allegoria della democrazia non violenta e gandhiana valida ovunque, l’esemplificazione di ciò dovrebbe essere il premio Nobel per la pace; creare due film paralleli, che si intersecano solo nelle poche scene in cui la dittatura militare birmana ha concesso al marito inglese di rivedere la moglie agli arresti domiciliari. Quindi un film sulla Birmania, il dramma politico, che sviluppa Aung San Suu Kyi nella storia nazionale, e un film di supporto, ambientato sostanzialmente a Oxford, il dramma famigliare della lontananza forzata, che restituisce centralità al marito (David Thewlis non recitava così da L’assedio di Bertolucci) e diventa un melò tanto individuale quanto sofferto sacrificio all’altare della Storia. Ed è proprio gestendo due film paralleli che Besson può insistere sul suo punto di forza e contemporaneamente sul suo punto debole: infatti, la doppia narrazione gli consente di lavorare sull’assenza grazie a virtuosismi sottili, come la funzione della musica classica (il concerto per pianoforte e orchestra n. 23 di Mozart) che diventa per ciascuno dei due protagonisti un dialogo della memoria o una connessione emotiva con il partener lontano, ma gli consente anche di ricondurre il film biografico in sottogeneri delineati e più occidentali, e quindi a preferire l’estetica del film d’azione, la dicotomia del film “bellico”/storico che riduce gli schieramenti secondo una relazione giusto/sbagliato, ma soprattutto la centralità del melò come proposta di unificazione biografica e transnazionale. Così facendo, però, occidentalizza ciò che preferisce ma deraglia nel pericolo del film biografico, ovvero la riduzione di una vita a simbolo: Aung San Suu Kyi diventa soltanto personaggio in funzione dello stato o della famiglia, icona di uno slogan pacifista e libertario. Resta scollato il suo essere donna, se non lo sensibilizza l’abilità di Michelle Yeoh nel sottolineare le reazioni più che le azioni del suo personaggio, e resta abbozzata la Birmania, tanto che brutalmente si potrebbe anche dire che per Besson la Birmania è soltanto uno sfondo per uno scenario dittatoriale, uno sfondo degno di pietas ma che poteva essere altrettanto intercambiabile con quello di paesi come la Cambogia, il Cile, l’Etiopia (come invece non dimentica Teza). Si potrà sempre giustificare e apprezzare Besson per l’operazione divulgativa, per un florido umanismo ritrovato e padroneggiato, ma ritrovato guardando una biografia e un paese soltanto con i propri occhi, con i propri limiti, unidirezionalmente, con le proprie estetiche preimpostate e non messe in discussione. Così facendo, così dirigendo, si crea solo cinema del promemoria, si creano personaggi e ci si lava dalle proprie responsabilità.