Stranieri senza patria
Le due facce della discriminazione razziale vissute sulla pelle di un ragazzino di 10 anni,
costretto dopo la scoperta shock sulle sue origini a passare dalla condizione di persecutore dell’uguaglianza a quella di respinto che tenta disperatamente di integrarsi.
Alter ego est-europeo del bulletto neorealista e dell’Antoine Doinel de I quattrocento colpi, Tadek, sigaretta in bocca, nella Polonia post-bombardamenti respira ancora i residui dell’odio antisemita prendendo parte alle spedizioni punitive di una baby-gang, le cui violenze si stagliano nel grigiore degli edifici scalcinati, contagiando la cupezza della fotografia. È adulto in gruppo e negli atteggiamenti di superficie, ma la spensieratezza dei giochi sfogata in solitudine svela un rifiuto per quell’infanzia negata. Negata dall’assenza di un padre alla cui figura ha dovuto sostituirsi per badare alla madre, giovane e attraente, oggetto frequente delle attenzioni maschili, e al fratello, che seppur maggiore, è affetto dall’immaturità tipica dell’adolescenza. Produzione polacco israeliana, My Australia nella seconda parte si tinge dei toni caldi dell’universo yiddish, travolgendo il piccolo protagonista con un bagaglio di tradizioni e ritualità alle quali è tenuto a sottostare per evitare l’esclusione. Benché le simbologie di riferimento cambino, ogni essere umano desideroso di associarsi a un gruppo sarà sempre posto di fronte a leggi che ne annientano l’individualità. È quanto sembra comunicare l’autore, che dalla svastica alla stella di David (con le dovute proporzioni) individua una prosecuzione nell’infrangere l’identità del singolo.
La prigionia dei lager, finita la guerra, lascia dunque spazio alla prigionia culturale espressa nel kibbutz dall’impianto dei dispositivi di sorveglianza e dall’obbligo di far entrare nella doccia tutti i bambini, spaventoso richiamo agli ordini impartiti sull’uscio delle camere a gas.
L’Australia per Ami Drozd è la Terra Promessa per redimersi dai peccati, isola che non c’è per volare con la fantasia, viaggio di speranza e salvezza, sognata nell’America dagli emigrati di inizio secolo, e supplicata in qualunque altra meta nelle preghiere degli ebrei sui vagoni diretti verso i campi di sterminio nazista. Ma la meta fisica si modella sulla forma di una meta concettuale, frutto di un mondo interiore unico e personalissimo. Per Tadek l’Australia si raggiunge con la sua bicicletta, sopra cui può finalmente essere se stesso e sfrecciare libero, come l’aria sui prati in fiore.