Filmforum 20-29 marzo 2012
Il sogno del pirata
Nel 1971 Nick Ray viene richiamato in America, dopo un “esilio desiderato” in Europa, per tenere un corso di cinema all’università Harpur College di New York.
Durante il periodo che va dal 1971 al 1973 Ray realizza, insieme ai suoi studenti, quello che rimarrà il suo film più leggendario e sperimentale, in anticipo sui tempi e quasi in controtendenza con tutto il suo cinema, We can’t go home again. Allergico alle restrizioni autoritarie, Ray decise che il modo migliore di insegnare cinema ai suoi giovani studenti era l’esperienza sul campo, e facendo improvvisare i vari ruoli porta a compimento il suo ultimo film da regista. Nick si fa maestro di vita prima che di un mestiere, costruendo un rapporto di convivenza e fiducia con i suoi studenti, in un’epoca figlia dell’uscita dalla rivoluzione del ’68; i giovani “mestieranti” soffrono, si disperano, attaccano il modo di agire di Ray ma alla fin fine fanno cinema, mettendo in dubbio le proprie convinzioni e abbandonandosi in pieno nelle mani del “pirata” del cinema. Susan Ray intervista i protagonisti di quell’esperienza unica, che ne ricordano la difficoltà e ammettono il proprio percorso di crescita umano e professionale di cui ancora, nonostante il passare degli anni, portano le tracce. E’ un ricordo affettuoso ma allo stesso tempo doloroso, per l’aria che si respirava durante la lavorazione di We can’t go home again. Con estrema onestà intellettuale e affetto Susan realizza un omaggio al cinema del marito, che ne evidenza lo spirito ribelle e la statura emotiva segnata dalla dipendenza all’alcool. Attraverso le testimonianze e le immagini ci si rende conto sempre di più che We can’t go home again era destinato inesorabilmente verso il fallimento in quanto troppo avanti coi tempi sia cinematografici che della società americana. Ma l’invidia è grande nei confronti di chi ha potuto studiare così il cinema, accompagnato per mano da uno dei più grandi maestri del cinema. Per chi si avvicina a We can’t go home again la visione precedente del documentario della Ray è consigliata, e forse chi all’epoca della presentazione del film al festival di Cannes del 1973 criticò il film in modo negativo si ravvedrà con questo documento inedito e raro. E’ vero We can’t go home again non è un film “facile”, la genesi e la realizzazione finale sono figlie di un percorso difficile e particolarmente complesso; superficialmente sembra non avere una storia e forse è un po’ quello che si era prefissato Nick Ray, sperimentare con un fine didattico ma non esclusivamente cinematografico. Ray, insieme ai suoi studenti, gira in vari formati e il risultato finale sarà uno schermo in cui sono assemblati pezzi di pellicola in 35, 16, 8 mm e video, che cercano di raccontare in un film ancora “non definitivo” il fermento politico, sessuale e sociale dell’epoca. E’un’opera confusa e sregolata ma negli anni esercita ancora un fascino particolare, un evento a cui ci si sente onorati di far parte. Lo psicodramma vissuto dai giovani del film sottolinea la potenza emotiva, sia per chi lo vede sia per chi l’ha “vissuto”. La pellicola finisce con il suicidio di Ray, come ammissione di resa nei confronti del cinema e di abbandono di un mondo con cui era difficile confrontarsi. Ray morirà nel 1979, e dopo We can’t go home again non realizzerà più film ad esclusione del omaggio-testamento di Wim Wenders Nick’s Movie-Lampi sull’acqua; tutto era già stato detto, tutto era già stato vissuto e ormai non ci si doveva più “aspettare troppo”.