La partenza di Wang
Arriva Wang, e sarebbe bello ci portasse buone nuove, ancora una volta, sullo stato in crescita del cinema di genere italiano che, da più parti, sembra far detonare scintille promettenti.
Purtroppo – ed è davvero un peccato dirlo, almeno per chi scrive – il tentativo si perde in un dedalo di (buone?) intenzioni, buio e nebuloso. La fantascienza, in Italia, è rara: negli ultimi anni, ricordiamo forse Nirvana di Salvatores e L’ultimo terrestre di Gipi (e dimentichiamo intensamente la realscienza di Sei giorni sulla Terra). Ma i Manetti Bros, stando alle loro stesse dichiarazioni, vogliono recuperare il genere low budget anni ’70 e ’80, dimostrando il teorema che per srotolare inquietudini più o meno fantastiche si può fare a meno delle valanghe di effetti speciali alla Avatar o alla Matrix. Ottima idea, e ottimo soggetto, almeno in potenza (e in partenza): una giovane traduttrice di cinese viene assoldata da misteriose forze dell’ordine, bendata e condotta in un seminterrato buio per interrogare un certo signor Wang, che parla solo, appunto, mandarino. I Manetti ci sanno fare con la macchina da presa, e ancor di più con montaggio e sonoro. Il disvelamento della “verità” passa per lo sguardo, la progressiva messa a fuoco dello sfondo, l’aumento dell’illuminazione. La tensione si regge sui fili tirati della colonna sonora e (ancora di più) sulla geniale intuizione della traduzione dei dialoghi: Gaia fa da tramite, ma, proprio come lo spettatore, non “vede” anche se vede, non capisce anche se conosce la lingua. Non basta accendere la luce, il dialogo è insufficiente. E, purtroppo, non basta una sceneggiatura da mediometraggio stiracchiato che spreca l’ottimo spunto iniziale, inceppandosi in forme ripetitive e cedendo sotto i colpi di battute troppo spesso inverosimili e qualche volta pure sovra-recitate. È cinema di genere, d’accordo, ma non è giustificazione sufficiente a motivare scelte discutibili: quando la narrazione chiude il cerchio ricongiungendosi con l’incipit, il film pare risvegliarsi spaesato come Gaia nei territori a luce intermittente del sotterraneo. Per non dire del finale, irritante nel suo sbandierarsi politicamente scorretto: colpo di scena facilmente anticipabile, che ha tutto il sapore della presa in giro accompagnata da fragorose (auto) pacche sulle spalle. Che peccato, davvero. Lo stile c’era e la scintilla pure. Niente fuochi, però, e forse la ricetta al rialzo dell’incessante parodia autoironica, alla lunga, è più pericolosa di Wang: ci si finisce impigliati e non si trova l’uscita.
L’arrivo di Wang [Italia 2011] REGIA Manetti Bros.
CAST Ennio Fantastichini, Francesca Cuttica, Antonello Morroni, Li Yong.
SCENEGGIATURA Manetti Bros. FOTOGRAFIA Alessandro Chiodo. MUSICHE Pivio, Aldo De Scalzi.
Fantascienza, durata 80 minuti.