La7d, Sabato 3 marzo, h. 21.10
L’agonia di un uomo sedotto dalla vita
Un letto d’ospedale, un malato terminale, il dolore che colpisce e che si acuisce sempre più. Quel tumore si sta mangiando dal di dentro Rémy/Rémy Girard, professore universitario di storia, “socialista erotomane”, divorziato, che dalla vita ha avuto tanto, forse tutto, ma la vita ora gli chiede il conto.
Questo è Le invasioni barbariche, film del 2003, di Denys Arcand – tra i molti premi si aggiudica a Cannes la statuetta per la miglior sceneggiatura e per la miglior interpretazione femminile, grazie a Marie-Josée Croze/Nathalie, e il premio Oscar per il miglior film straniero, seguito ideale del Il declino dell’impero americano, film di denuncia del 1986. Quello a cui si assiste è il declino di un uomo ma anche di un’intera nazione: “il cuore dell’impero è stato toccato”, viene annunciato alla televisione, mostrando le immagini che hanno scosso il tutti l’11 settembre 2001; quel cuore non è solo il “cuore” malato di Rémy, ma anche quello dell’intero mondo occidentale. Gli occhi increduli degli spettatori di fronte allo sgretolarsi delle Torri Gemelle sono gli stessi dei visitatori amorevoli del protagonista che assistono alla sua agonia, non capendo come, proprio al loro amico più innamorato della vita, più ad essa legato sia toccata questa sorte: il professore, inconsapevole burattino della vita, capriccioso “amore”, che lui era convinto di aver sedotto, alla fine da lei è sdegnosamente abbandonato, lasciato sfibrato, privato di tutto ciò che l’aveva sempre spinto e mosso. In questa barbarie, più nessuno è al sicuro, i barbari sono alle porte e ora li si può solo arginare: non a caso a dividere la camera d’ospedale con il professore è uno di loro, uno che viene identificato da quel Momento come il Male. Arcand non propone una terapia, non trova soluzioni, ma legge tutto con cinismo e ironia, toccando punte di commozione e lirismo; quando i volti di Rémy e del suo “malvagio” compagno di stanza, di notte, quando i pazienti sono soli con la loro paura, si sovrappongono in una smorfia di desolata rassegnazione, non si può far altro che rimanerne colpiti: forse tutti noi siamo barbari, forse nessuno è al sicuro. Ma è limitante leggere Le invasioni barbariche solo in questo senso, l’opera è un gioco al massacro per la sensibilità dello spettatore. Il regista immerge le mani nel materiale molle dell’esistenza, citando Platone, Seneca e Dante: vaghiamo sperduti nei corridoi di un ospedale fatiscente, non pronto a curare l’uomo, ci imbeviamo di corruzione e privilegio, figli di una Sanità disumana in cui amica e “lenitrice” del dolore è l’Eroina, grazie ad essa si raggiunge un paradiso artificiale – la pietosa mano che inietta la droga nel “voglioso” braccio del malato diventa alleata in un viaggio in cui si mescolano rassegnazione e dramma (resi splendidamente dalla Croze), di chi, viva, ricerca la morte e di chi, in punto di morte, ricerca la vita – e in cui un’unica speranza a cui aggrapparsi è l’eutanasia. Non ci troviamo però di fronte ad un’opera cupa e asfittica, anzi il film è sferzante, diretto, grazie a personaggi vivi, vibranti e pieni di passione. Rémy trabocca di cultura, ma anche d’amore per la vita, attorniato dai suoi amici di un tempo ricorda gli -ismi che hanno segnato la sua epoca, ricorda le “donne” che hanno “giaciuto” con lui nelle notti giovanili, riportando alla mente le gambe tornite dell’eterea Ines Orsini (nel film di Genina Cielo sulla palude), ma anche la “storia d’amore” con la cantante Françoise Hardy che ha turbato la sua giovane immaginazione. Rémy rievoca con malinconica nostalgia gli anni della giovinezza, età dell’oro, momento di massima trasformazione, in cui si gode tutto a pieno, in cui tutto è possibile, in cui ogni parte dell’uomo, dal corpo alla mente, vive la sua “era” migliore: il vigore con cui il suo corpo rispondeva all’amore, la mente aperta all’apprendere e al capire, basta avere “smodatezza, sana intemperanza”. In questa cerimonia degli addii c’è anche l’incontro o la riscoperta del figlio Sébastien/Stéphane Rousseau, all’inizio freddo e duro nei confronti del padre, tanto diverso da lui – traditore impenitente, così folle da non nascondere nessuna scappatella alla moglie -, ma poi “fautore” di tutta quest’orda di barbari che invadono e riempiono la stanza del paziente. Mentre la malattia lo divora, la consapevolezza di ciò che è stato, degli errori fatti e di ciò che sta perdendo, prende il sopravvento e Rémy saluta, chi è stato importante nella sua vita, con un abbraccio lento ma pieno e vigoroso, e, come se lo conoscessimo, anche noi che ci sentiamo accarezzati dalle Invasioni Barbariche e dalla stessa brezza che la figlia velista gli aveva inviato in uno dei suoi video.