La casualità nel mezzo
Prima della scoperta delle malattie della mente, nella società maschilista europea, ogni esagerazione femminile, sofferenza ed eccesso finivano per essere catalogati sotto il termine “isteria”. Non è un caso né l’accezione negativa che porta ancora con sé questo termine, né la sua declinazione quasi esclusivamente femminile.
Tanya Wexler decide però di portare sul grande schermo la parte più divertente della storia di questa finta malattia, quella relativa a come veniva affrontata nell’alta borghesia, dove dottori specializzati rischiavano lesioni permanenti alla mano per stimolare manualmente (creando esilaranti scene in cui un momento intimo diviene un esperimento pubblico), facendo ciò che le signore benpensanti non si arrischiavano a fare da sole. Certo è accennata anche la problematica sociale e la discriminazione a cui il genere femminile veniva sottoposto soprattutto attraverso la descrizione delle due sorelle protagoniste, opposte nel modo di affrontare la vita; Emily dedita al ruolo impostole dalla società, concentrata solo a realizzare la felicità paterna, Charlotte invece che persegue i suoi ideali, aiutando i poveri e desiderando un compagno alla pari al posto che un marito a cui sottostare. Il racconto è quasi diviso a metà: il giovane dottore che vuole cambiare il mondo e che invece si trova a rendere felici donne annoiate e ben paganti da una parte, e lo stesso giovane che crede di poter essere felice solo sposando una donna tradizionale, senza idee particolari o interessi fuori dal comune dall’altra. E ancora: l’invenzione di un oggetto che dovrebbe aiutarlo nel suo lavoro, che perde il suo valore scientifico nel momento in cui si scopre che la malattia per cui è stato creato non esiste, è solo un calderone di falsi sintomi, di atteggiamenti non apprezzati. Ma poi arriva il lieto fine, ricercato ad ogni costo e prevedibile da inizio film.