MYmoviesLive
Crescere è un’avventura
L’universo di Alex van Warmerdam non è dei più semplici da interpretare: occorre pazienza e volontà, soprattutto desiderio di calarsi completamente in esso senza pensare, solo accettandolo per come si propone, apparentemente assurdo, in fondo coerente.
Nel 1986, il suo primo lavoro per il grande schermo si apre sul protagonista, Abel, un trentenne che da anni non mette il naso fuori dalla porta di casa. Suoi compagni inseparabili sono un paio di forbici, con le quali tenta di tagliare in due le mosche che si intrufolano nell’appartamento, e un binocolo, grazie al quale spia l’esterno, soprattutto i suoi vicini di casa, in una disturbata ma più ingenua versione dell’invalido protagonista de La finestra sul cortile. Come spesso si dice, in gran parte è colpa dei genitori se il figlio cresce in una certa maniera e in questo caso si fa presto a capire da dove vengano i problemi: impressionanti divoratori di pesce, la madre è una donna di mezz’età in crisi d’identità, iperprotettiva e dipendente dal benessere del suo bambino, il padre è un collerico ipocrita moralista con una spiccata predilezione al voyeurismo.
I presupposti per una commedia dell’assurdo ci sono tutti, ma la comicità che pervade l’opera ha uno spiccato sentore di tristezza. I tre membri della famiglia popolano un mondo costruito a loro misura, delimitato dalle pareti dell’appartamento in cui vivono lontani dalla frenesia della città, che ospita invece una realtà assente, popolata da automi senza identità che si muovono ritmicamente componendo delle coreografie silenziose e meccaniche. Quando l’equilibrio del nucleo si sfalda, il loro disordine lascia evidentemente indifferente la società, che continua a vivere senza accorgersi della presenza di individui controcorrente e disgiunti anche visivamente dai toni grigi della sfilata di marionette.
Già in questo suo primo lavoro il cineasta olandese dimostra uno spiccato interesse per la psicologia dei suoi personaggi, apparentemente dei tipi strani, outsider che diventeranno sempre più dei perdenti a tratti malvagi. Qui la sensazione che pervade l’opera è quella dell’essere oppressi, resa molto bene grazie ad angolazioni della camera che schiaccia i personaggi, i silenzi che scandiscono il loro rapporto, le soggettive attraverso un binocolo che limitano il visibile a un terzo dello schermo. Un capitolo a parte lo si deve dedicare al geniale arredamento delle case che già vira pericolosamente verso l’esagerato e il fastidioso, per approdare dopo qualche anno nel raccapricciante dell’appuntamento romantico di The Dress, quando i due amanti sembrano finire in una casa di bambole talmente piena di qualsiasi tipo di ornamento da dare il senso di claustrofobia, allo stesso modo della tappezzeria della camera da letto dei genitori di Abel, con annessa una coperta rosa, lucida e plastificata che sembrerebbe fatta di lattex.
Purtroppo inedito in Italia e distribuito in pochi paesi, Abel è un’opera prima di carattere, che mette in chiaro fin da subito tutta la volontà del regista di raccontare delle storie diverse dall’ordinario, con uno stile tutto personale, alternativo ma coerente, un grande pregio che dimostra fiducia nelle proprie idee: un motivo in più per recuperare le sue pellicole, cominciando proprio da questa.