Due volti, un flop
Dietro un volto candido di madreperla si annidano traumi che la società civilizzata, o presunta tale, di fine Ottocento non può accettare.
I fantasmi che il regista Rodrigo Garcia porta sul grande schermo nel film Albert Nobbs provengono dall’Irlanda dei salotti dell’alta borghesia nei quali il dislivello fra classi è tanto visibile quanto l’ipocrisia che sottende a questo implicito patto di convivenza. Glenn Close è Albert Nobbs, nato donna ma cresciuto da uomo per necessità, il cui unico sogno nella vita è raggiungere uno status di indipendenza lavorativa e sentimentale per riscattarsi da una colpa incancellabile. L’idea, più che al cinema, è ben nota al teatro europeo, che ne ha dato magnifica espressione attraverso la pièce Max Gericke che Manfred Karge scrisse ispirandosi ad un fatto realmente accaduto nella Germania del primo dopoguerra e che in Italia è stata portata al successo prima dallo stesso Karge e poi da Elisabetta Pozzi, sempre per la regia di Walter Le Moli. Perché aprire un raffronto così trasversale per spiegare il film di Garcia? Perché entrambi partono da una medesima crisi, quella lavorativa, ed entrambi costruiscono un preciso percorso di riaffermazione della sessualità. Nel monologo teatrale il protagonista decide di rinunciare alla sua natura per prendere il posto del marito deceduto e durante tutto lo spettacolo questa rimozione emerge con sempre maggior forza fino all’esplosione finale, nella quale la femminilità riappare in modo grottesco e straniante. Nel film di Garcia, al contrario, appare già debole la motivazione iniziale che spinge Albert Nobbs a fingersi uomo, ovvero trovare lavoro come cameriere. Non c’è nessun indizio che ci faccia pensare che il suo essere donna l’avrebbe esclusa a priori da un lavoro così umile e, perciò, sessualmente non discriminatorio. Il rimosso femmineo appare solo in una sequenza, nella corsa un po’goffa che Albert compie sulla spiaggia che, però, rimane un evento più che una tappa, un tentativo più che un percorso. Intorno a lui/lei si muovono personaggi altrettanto sconclusionati, come il tuttofare Joe (Aaron Johnson) che cambia così tante volte carattere che qualcuno potrebbe sospettare un disturbo bipolare, o la cameriera Helen (Mia Wasikowska) che è un surrogato di tutti i cliché del melodramma occidentale. Un film che si basa sulla “maschera” in modo talmente disordinato che non si avverte mai la necessità di scoprire cosa si cela dietro.