Il dubbio dell’Oscar
Trent’anni sono passati da quando Glenn Close ha vestito i panni di Albert Nobbs a teatro. Sei lustri in cui l’attrice ha cercato invano di portare al cinema il racconto di George Moore Morrison’s Hotel, Dublino, fino ad oggi quando, con l’impegno dell’interprete (qui anche produttrice e sceneggiatrice) e dell’amico Rodrigo García – regista di storie al femminile come Le cose che so di lei o 9 vite da donna – Albert Nobbs arriva nelle sale, lasciando però delusi dal risultato finale.
In una Dublino di fine Ottocento finemente ricostruita guardando a The Dead – Gente di Dublino, la storia di una donna che per sfuggire alla povertà si passa per uomo e si fa assumere in un lussuoso albergo, se contestualizzata al periodo del racconto, trova la sua originalità nelle scottanti tematiche della parità tra i sessi e l’impossibilità di affermare la propria diversità. Ma la forza del testo diventa la debolezza dell’adattamento.
Gli stessi temi perdono la provocatorietà originale per una leggerezza da commedia all’inglese in costume basata su scenette a equivoci giocate sulla doppia identità di Nobbs (i commenti delle inservienti sui clienti o l’incontro-rivelazione con l’imbianchina/Mr.Page), che vira poi improvvisamente verso una deriva drammatica dalle atmosfere quasi dickensiane.
Dal momento in cui il/la protagonista decide di prender moglie per dare una parvenza di normalità alla sua vita, clichès e prevedibili colpi di scena fanno venir meno l’efficacia degli snodi narrativi in una spasmodica ricerca della lacrima facile, con tanto di frase aulica del medico a suggellare moralmente il film.
L’Albert Nobbs di Close ricorda lo Stevens di Antony Hopkins in Quel che resta del giorno per la dedizione che mette nel lavoro e il Bartebly di Herman Melville per l’apparente estraneità al mondo circostante, ma è l’interpretazione a risentirne. Come altri colleghi cimentatisi in ruoli di sesso opposto (Julie Andrews in Victor Victoria o Robin Williams in Mrs. Doubtfire – Mammo per sempre) la forte personalità dell’attrice prevarica sul ruolo, rendendolo una trasposizione al maschile del suo “personaggio”, priva dunque di una profonda immersione in un corpo altro diverso dal proprio.
I premi e le candidature (tra cui Golden Globe e Oscar) conquistate per questo e altri ruoli tecnici e non, fanno così sorgere il dubbio che più che il film si sia voluto gratificare il “pacchetto” e il suo intento di perseguire un datato ma collaudato impianto cinematografico, che il pubblico dimostra ancora di apprezzare.