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Indossami, ti porterò fortuna
Quante volte in una romantica commedia l’attenzione per la felice risoluzione della storia è stata catalizzata da un oggetto inanimato, spesso una lettera, un libro, un qualsiasi pezzo di carta su cui è annotato un numero di telefono, un nome, una dichiarazione d’amore.
Altre volte è una banconota ad essere simbolo e oggetto che dà il via alla narrazione, come nel caso dell’ultimo film di Bresson, L’argent, o della commedia Twenty Bucks. Alex van Warmerdam decide invece di attribuire il ruolo di protagonista ad un vestito: femminile, estivo, colorato, è in assoluto il personaggio più analizzato nel film, dalla nascita dell’idea per il suo motivo, fino alla morte e inaspettata risurrezione.
Insieme a lui trovano spazio le vite delle persone che lo modellano: se le donne appaiono come delle grucce inanimate, dei corpi con la funzione di riempire la stoffa, gli uomini invece hanno bisogno di un maggiore sforzo interpretativo. Sono loro che dialogano con l’oggetto, loro che lo plasmano, lo giudicano, lo vendono e ne sono ossessionati. L’essere umano, schiavo del proprio cervello, inconsciamente matura in sé le più strane e pericolose fissazioni: in questo caso la stampa sgargiante e fantasiosa, nata per caso, discussa e apprezzata da donne di diversa età, modellata sul corpo di ciascuna, donando a tutte la sensazione di essere belle, desiderabili, leggere. Allo stesso tempo questa sembra assorbire le storie degli uomini con cui è entrata in contatto, dalla sfortuna del disegnatore, alla depravazione feticista dello stilista, diventando la valvola di sfogo in soggetti emarginati, solitari e soli, che si mostrano mentalmente sani, ma inconsapevolmente sottomessi alle loro pulsioni più celate. Anche in questo lavoro, apparso al pubblico italiano solo durante la Mostra del Cinema di Venezia ’96, e due anni più tardi al Festival Internazionale del Film di Roma, si ripropone la naturale tendenza del cineasta di mescolare diversi elementi, il dramma mascherato da comicità nera, la farsa triste e, qui più che mai, il puro romanticismo diventato nervosismo disturbante. Diventa naturale essere irrequieti sapendo che non si è al sicuro la notte nel proprio letto e che un individuo apparentemente innocuo riesca ad introdurvisi senza sforzo, nel terrore della violenza e nel senso di sconcerto dovuto al fatto che in realtà l’uomo si professa normale, la parte questa più importante e complessa dal punto di vista psicologico, che il regista si ritaglia tutta per sé.
The Dress non è solo un film su un pezzo di stoffa, come molti potrebbero pensare, ma ha il merito di toccare in maniera alternativa corde scoperte sulla società e sulla mente umana, governata da forze che sottolineano il senso di depressione e distruggono quel poco di controllo che i soggetti hanno sulla realtà. Relazioni basate su una stagnante monotonia, ipotetiche favole si trasformano in abusi, la compassione sottomessa dal senso di marcio e perversione.
Invece che prendere come soggetto un qualsiasi tragico essere umano, l’unico punto di vista è quello del vestito, capace di sopravvivere al fuoco, al freddo e alle persone, quasi dotato di vita propria, in un’opera che merita una riflessione, non solo un vago commento.