Sulla soglia del limite
Raccontare storie di violenza e abusi su minori, inquadrare il problema attraverso un occhio asciutto e distaccato ma allo stesso tempo con una narrazione che non riesce a rimanere impassibile e distanziata dall’esistenza dei personaggi, così si presenta Polisse pellicola incentrata sulle vicende del reparto di protezione sui minori della polizia, e nel quale vediamo intrecciarsi le storie dei protagonisti con i numerosi casi messi in evidenza nel corso del film (tutti tratti rigorosamente da avvenimenti reali).
Il contrasto, ad alimentare la pellicola, è proprio il distacco, la capacità di non esser coinvolti nelle singole vicende da parte dei personaggi, dalla regista e dallo spettatore. Tutto appare come un semplice lavoro, ripetizione continua di eventi che con il passare del tempo diventano sempre più ordinari perdendo la loro carica disturbante; è vero, ci si può incazzare, urlare o scandalizzare, ma fa parte tutto del gioco delle parti per ottenere la verità, del resto oltre a questo ci si può anche sghignazzare sopra gli episodi raccontati (lo spettatore assieme ai personaggi), come nel caso della ragazzina prestatasi a prestazioni orali per uno smartphone, perché tutto è ormai numero, massa di atrocità quotidiane.
E’ la regia prima di tutto a suggerici questo sguardo così distaccato, e non è un caso che la stessa regista Maïwenn Le Besco interpreti il ruolo della fotografa che deve riprendere il lavoro svolto dagli agenti. Lei è un’osservatrice impassibile, quasi invisibile che cerca di mostrare oggettivamente i fatti; ma questo, ovviamente, non accade, visto che la volontà di raccontare le esistenze dei singoli personaggi mostra il vero conflitto insito nel film. Conflitto che viene messo in evidenza in alcuni frangenti in cui si è impossibilitati a rimanere indifferenti: sostenere impassibili di fronte al frutto di uno stupro è qualcosa d’inimmaginabile, e proprio come in precedenza, noi assieme ai protagonisti, non possiamo non esser coinvolti emotivamente con ciò che accade e che vediamo. Allora tutto non è massa o un semplice ripetersi di situazioni spiacevoli, quest’ultime assumono forma ed essenza, grazie prima di tutto alla regia che sottilmente esce da quella consueta oggettività, mantenuta per gran parte dalla pellicola, per rappresentare con disturbante drammaticità le atrocità quotidiane.
Questo è ciò che funziona in Polisse, film sempre al limite tra oggettività e soggettività senza che la differenza diventi troppo evidente; ciò che invece risulta essere meno convincente è la parte legata alle vite personali degli agenti, abbozzate e mai del tutto rifinite, che non sempre si adeguano al meglio con il resto della narrazione. Probabilmente la scelta di raccontare le vite di tanti personaggi ha fatto perdere il controllo sulla presentazione di ognuno di loro.
In ogni caso Polisse è capace di dare uno sguardo inedito e controllato su vicende mai semplici da raccontare, ma allo stesso tempo mette in scena, proprio come il nostrano e recente ACAB, in maniera tutto sommato convincente, un corpo della polizia coeso al suo interno, ma sempre solo davanti alle istituzioni.